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La nazionale

Chissà se rivedremo mai un'Italia del basket come quella del 1983

Umberto Zapelloni

Quarant’anni fa gli azzurri vinsero l'Europeo di pallacanestro. Gamba: “Quella di Nantes era una vera squadra". Nonostante la poca visibilità dei giocatori italiani è un obbligo morale riprovare a tornare a quei livelli

Sono passati 40 anni e il timore è che quel periodo dorato possa non tornare mai più. Per il basket azzurro sono i giorni della celebrazione dell’anniversario della conquista dell’Europa. Nantes 4 giugno 1983: l’Italia di Sandro Gamba batte la Spagna e si tuffa nell’oro continentale. Emozioni mai vissute prima e raramente rivissute dopo. Quel 1983, arrivato un anno dopo l’impresa Mundial di Bearzot, non riempì le piazze di tifosi, ma segnò un momento particolarmente glorioso per la nostra pallacanestro. Due squadre italiane, Ford Cantù e Billy Milano erano arrivate a giocare la finale di Coppa del Campioni, la Scavolini Pesaro aveva vinto la Coppa delle Coppe e lo Scudetto era sceso al sud grazie a Valerio Bianchini che aveva fatto impazzire Roma per la palla a spicchi, inventandosi un giocatorino come Larry Wright. Cronache che arrivano dal passato, costruite su nomi che ancora adesso fanno battere il cuore degli appassionati. Sarà il tempo che passa, sarà la nostalgia che è sempre canaglia, ma quando rileggi il tabellino di quella squadra guidata da Sandro Gamba viene quasi il magone: Marzorati, Riva, Sacchetti, Vecchiato, Meneghin, Caglieris, Tonut, Bonamico, Gilardi, Costa, Brunamonti e Villalta. Era un’Italia piena di talento che metteva in campo una difesa tosta, feroce, studiata nei minimi particolari da coach Gamba, ma che nello stesso tempo realizzava più di 100 punti alla Spagna in finale (“Da una grande difesa nasce un eccellente attacco”, il mantra di Gamba). Quell’Italia arrivata alla finale di Nantes senza perdere mai, neppure con i rissosi, ma fortissimi jugoslavi in quella che è stata la partita che ci ha reso imbattibili, ha avuto il grande merito di rendere popolare la pallacanestro che ha vissuto meravigliosamente in quegli anni Ottanta, cominciati con l’argento olimpico di Mosca (era l’anno del boicottaggio americano): “Quelle due medaglie sono stati i razzi che hanno spinto il basket nel mondo degli sport importanti. Abbiamo lasciato un bel segno nel basket italiano”, ricorda Gamba. Anni d’oro, riempiti conquistando 5 coppe dei campioni con Cantù (2), Roma e Milano (2) che da allora non l’ha più vinta. Era il periodo del massimo splendore di Bianchini e Peterson, due che se le sono date senza risparmiarsi un colpo e oggi si vogliono bene quasi come fratelli. Ma erano anche gli anni che hanno prodotto il miglior giocatore italiano di sempre, Dino Meneghin e altre stelle che oggi varrebbero milioni di euro e forse l’America ci verrebbe a rapire come Marzorati, Riva, Sacchetti e compagnia. Ragazzi con fisico e cervello. 

Oggi abbiamo il talento di Gallinari, quello di Melli, Datome, Belinelli, forse importeremo quello di Banchero, ma come ricorda sempre il presidente Petrucci, solo vincendo con la nazionale si diventa davvero immortali. In quell’Italia che poteva fermarsi a due stranieri per squadra in campionati, di campioni ce n’erano a manciate. Basta davvero rileggere quella formazione. Ma i nomi non bastano se poi non si trasformano in squadra. Con gli album di figurine non si vince nulla. Con un allenatore che studia maniacalmente partite e avversari si diventa grandi. Rileggi gli appunti pre partita di Sandro Gamba e capisci come nulla fosse stato lasciato al caso. “Nantes è stata la vittoria meno prevedibile. Tutti pensavano se andrà bene arriveremo terzo o quarti. Invece abbiamo vinto giocando un basket di grandissima qualità, ce lo hanno riconosciuto anche gli americani che per mi chiedevano di quella squadra e nelle loro Università mi facevano commentare i video di quella finale giocata davvero bene, giocata da squadra. Quella era una squadra di 12 uomini fantastici. Tutti di altissimo livello. Uomini veri e grandi giocatori. Quella di Nantes era una vera squadra: dal primo al dodicesimo uomo sono stati tutti utili in partita e in allenamento perché è molto importante che si allenino tutti con intensità”. Il segreto stava proprio lì: uomini veri oltre che grandi giocatori. Gente che sapeva quando in campo era necessario metterci qualcosa in più. Gamba quando parla del suo basket racconta di averlo sempre ritenuto “una magnifica combinazione di elementi di segno opposto: attacco e difesa, nani e giganti, forza e aggressività abbinate all’abilità dell’illusionista e alla grazia di una ballerino”. Gamba era uomo di grandi studi e grandissima personalità. Un coach capace di entrare nello spogliatoio dopo un primo tempo finito sotto di 30 punti e gridare: “Adesso voglio pressing a tutto campo e il primo che molla si becca anche una pedata nel culo”. Quella volta (era la semifinale dell’europeo 1985) la rimonta si fermò a tre punti dall’Urss. Ma la reazione ci fu, eccome. Senza bisogno di pedate.

La sua nazionale era tutto questo (“Abbiamo vinto perché era una grande squadra, non perché l’allenatore era uno scienziato atomico”, aggiunge). Quarant’anni dopo siamo ancora qui a ricordare quel trionfo con il cuore diviso in due. Da una parte è gonfio d’orgoglio per quello che l’Italia di Gamba riuscì a fare in Francia, dall’altra è spezzato perché un po’ significa che dopo abbiamo avuto poco altro da festeggiare: l’europeo 1999 con Tanjevic e l’argento olimpico di Atene con Recalcati. Chissà quando tornerà un’Italia da celebrare come questa del 1983. Oggi tutto è più complicato. L’Europa ha moltiplicato le sue nazioni. Il nostro campionato ha tolto minuti agli italiani. Forse è un’Italia che non tornerà mai più, ma l’obbligo morale è quello di riprovarci. Il Poz lo sa bene.

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