Una scena del film "I due Papi": Ratzinger e Francesco guardano la finale dei Mondiali 2016

Il Foglio sportivo

Benedetto XVI è stato anche Sport Thinker

Moris Gasparri

La sua riflessione teologica alla vigilia del Mondiale messicano ha lasciato il segno. Esiste una ragione profonda del legame tra il cattolicesimo e lo sport

Joseph Ratzinger è stato uno “sport thinker”? Tanti si sono soffermati in questi giorni sui cenni esteriori del legame tra il papa emerito scomparso lo scorso 31 dicembre e lo sport, dal suo tifo per il Bayern Monaco, la “nazionale” di ogni bavarese di cui Ratzinger è stato anche socio onorario, ai numerosi incontri pubblici con atleti e campioni organizzati durante il suo pontificato. Qualche voce più colta ha rievocato anche le brevi e assai interessanti riflessioni teologico-sportive scritte nel 1985 alla vigilia della Coppa del Mondo messicana, su cui torneremo.

 

Certo, la formazione di studio e il percorso di vita di Benedetto XVI sono a un primo sguardo quanto di più lontanamente immaginabile dai percorsi della vita atletica: austere biblioteche e il compito di pensare la relazione con il divino prima, le segrete stanze vaticane e il difficile compito di governare il gregge cristiano verso l’annuncio di salvezza dopo. Nulla a che vedere con i suoni e i rumori di campi da gioco e palestre, con l’esigenza di non pensare troppo, o non pensare punto, richiesta agli atleti in gara, pena il fallimento della propria prestazione, o con un ruolo sociale, quello dello sport, che non ha nessuna trascendenza da indicare, ma al contrario emozioni - a volte quasi animalesche nella loro elementarità - da eccitare e scatenare a ritmo continuo.

 

Mondi lontani anche in occasione di inedite vicinanze, come nei ritiri estivi dell’allora cardinale tedesco nelle valli altoatesine da cui proveniva il ramo materno della sua famiglia, dove è possibile immaginarlo immerso nelle sue letture teologiche e filosofiche all’abbazia di Novacella, con i calciatori di Serie A in ritiro a sudare a pochi chilometri di distanza. Tuttavia esiste una ragione profonda del legame tra Benedetto XVI, la teologia cattolica e lo sport, che si muove lungo tre direzioni che proveremo brevemente ad analizzare.

 

La prima riguarda l’universalità. Nessun elemento possiede oggi più fascino attrattivo e potenza universale dello sport, in particolare le sue due grandi espressioni, Mondiali di calcio e Olimpiadi estive, forgiate dallo spirito aristocratico francese dei De Coubertin e dei Rimet. Non c’è un timbro cristiano all’origine di questi grandi eventi, ma una comunanza molto forte con gli orizzonti del cattolicesimo testimoniata dal senso etimologico del termine “cattolico”, che vuol dire appunto universale. Per quanto improntata a scopi e finalità diverse, il pensiero cattolico non può ignorare una condivisione unitaria così forte. Non a caso le riflessioni di Ratzinger prima ricordate furono pensate nell’imminenza dei Mondiali messicani del 1986, e non è di nuovo un caso che nel corso del Novecento il legame ombelicale tra i papi e lo sport, oggetto negli scorsi anni di un meticoloso quanto prezioso saggio di Antonella Stelitano, si sia costruito soprattutto in prossimità dei grandi eventi planetari sopra ricordati, e da questa prospettiva non può non esserci un valore simbolico più forte del fatto che Roma, la più universale delle città in relazione ai destini politici, giuridici e spirituali che l’hanno abitata, compresi quelli del cristianesimo, abbia ospitato entrambi gli eventi in questione. Per questo motivo l’evocazione del panem et circenses fatta da Ratzinger nei suoi pensieri sullo sport è piena di simpatia, e manifesta un riconoscimento del bisogno antropologico di assistere a gare e competizioni totalmente privo del senso negativo a cui è sempre stato associato il detto di Giovenale. 

 

La seconda direzione riguarda il personalismo. È nota l’importanza avuta da questa corrente nella formazione giovanile del pensiero teologico di Ratzinger, con l’attenzione posta sulla chiamata personale del Dio capace di attraversare l’esistenza del fedele scuotendone e impegnandone l’interiorità e gli atti pratici. Una fede fatta non solo di concetti, ma prima e soprattutto di persone che credono. Facciamo un nuovo salto alla classifica degli Sport Thinkers: da dove prendeva avvio il dialogo avvenuto nella scorsa primavera presso la Biblioteca Apostolica Vaticana tra il cardinale José Tolentino e José Mourinho, alla base della loro nomina congiunta? Da un richiamo al “personalismo sportivo” del filosofo portoghese Manuel Sergio, figura importante per entrambi i dialoganti, e da un suo pensiero illuminante: non esistono tiri, ma persone che tirano. Solo per fare un esempio, Messi è una persona, non un’entità eterea collocata sopra le vicende umane, un simulacro mediatico o statistico. E guai a pensare che nello sport tutto si risolva nell’esteriorità di corpi preparati allo sforzo per eccitare folle umane, l’interiorità appartiene anche al regno atletico e ne è una componente decisiva, perché ogni campione possiede un cuore attraversato e agitato da dubbi, speranze, tormenti, paure, frustrazioni. Per questo motivo ogni atleta che prepara gare e attende i loro esiti sempre incerti, anche se non credente, è in relazione con la preghiera, con l’invocazione umanissima di aiuto, protezione, conforto. 

 

Ovviamente gli obiettivi divergono, il personalismo cristiano è votato alla trascendenza e alla conquista di una vittoria sulla morte chiamata salvezza eterna, che non si ottiene da soli ma per grazia divina e per fede nella grazia divina, dimensioni irriducibili a ogni misura sportiva, a ogni periodizzazione degli allenamenti, a ogni match-analysis, a ogni colpo di fortuna o di talento. Però quest’attenzione alle persone è un terreno d’incontro importante tra i due mondi, sulla scia del primo grande incontro, le numerose metafore sportive utilizzate da San Paolo, in senso storico-filologico degli stratagemmi da politico navigato, in termini di teologia sportiva una delle poche testimonianze del mondo antico che ci parla non dell’esito delle gare – le vittorie e la loro reificazione a mezzo di statue o canti – ma del percorso spirituale che le precede, la medicina della fatica, la disciplina interiore, lo sforzo della volontà. Il pensiero cristiano nella modernità ha sempre elogiato la dignità umana e la profondità etica dell’essere atleti come nessun’altra tradizione culturale europea, senza snobismi e pregiudizi negativi, e sono aspetti che tornano con insistenza nei vari interventi di Benedetto XVI sullo sport.

 

L’ultima direzione è quella aperta dal richiamo ratzingeriano al calcio come “essere disciplinato assieme”, grande lezione (estendibile a tutti gli sport di squadra) sul vincere attraverso la relazione e non attraverso l’egoismo, e non a caso San Paolo parlava dei cristiani come di atleti capaci di “lottare assieme”. Proprio qui sta la pietra dello scandalo. Davvero l’agonismo sportivo può conciliarsi senza problemi con l’orizzonte della cristianità? Nonostante il pensiero cristiano veda con favore la capacità universale dello sport e la sua forte impronta etica, non ne può infatti accettare la sua principale verità fondativa. Il segreto dei campioni è l’umiltà, o non invece una smodata, idolatrica, ossessionata e allucinata ambizione, di cui l’umiltà, quando proferita verbalmente, è quasi sempre solo una copertura strumentale, o, negli sport di squadra, un’imposizione necessitata dalle regole del gioco? Nei giorni dell’addio di Benedetto XVI il mondo commenta e discute la notizia del miliardo di euro accettato da Cristiano Ronaldo per portare i suoi talenti nel Golfo Persico.

 

Sarebbe molto semplice liquidare il fatto come una seduzione diabolica del materialismo individualistico dei moderni, da cui lo sport, con la sua ricchezza etica e personale sopra analizzata, dovrebbe cercare di restare al riparo. È una lettura superficiale, poiché Cristiano Ronaldo con le ricchezze già accumulate nella sua carriera ventennale ha appagato tutti i bisogni materiali personali, e di almeno venti generazioni della sua discendenza. Il segno vero del mega-contratto è piuttosto l’appagamento di un altro desiderio, non materiale ma spiritualissimo, quello di essere riconosciuto come il primo, il migliore, il più forte e per questo il più invidiato, status sancito in questo caso dalla possibilità di comparire davanti a tutti in una classifica, quella degli atleti più pagati di sempre, che comprende gli sportivi di ogni epoca e disciplina.

 

Il calciatore portoghese con la sua presunzione egolatrica non sta tradendo i valori dello sport, li sta manifestando nella sua essenza, che anche nella modernità resta quella dell’agonismo omerico, depurato dalla violenza fisica, ma addizionato di superbia, perché mentre ogni eroe greco sapeva di non poter diventare troppo forte, per non irritare gli dei e rischiarne la punizione, oggi la volontà può dilagare senza freni.

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