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il ricordo

L'eredità di Gianluca Vialli oltre il calcio

Umberto Zapelloni

Con la malattia abbiamo conosciuto l'uomo dietro al campione. La paura della morte, la forza di reagire e di essere un esempio sempre positivo, nonostante tutto. Così come non faceva gol banali, non è mai stato una persona banale

“Se non sei mai triste, come fai poi a capire quanto è bello essere felici”. A Gianluca Vialli piaceva buttare lì delle frasi che lasciassero un segno. Così come non faceva gol banali, non è mai stato un uomo banale. Dopo esser stato un grande giocatore, un buon allenatore, un ottimo commentatore televisivo, era diventato un motivatore eccezionale, come possono raccontare gli azzurri diventati campioni d’Europa con lui team manager e spalla di Roberto Mancini, un fratello che in meno di un mese ha perso due delle persone a cui era più legato.

Le storie di Vialli e Mihajlovic ci raccontano che puoi anche lottare come un leone, avere i migliori medici del mondo, essere circondato da tanto affetto che di più non ce n’è, ma alla fine se non hai un po’ di fortuna il viaggio finisce. Però arrivare in fondo dopo aver lottato può trasmettere comunque un esempio. Perché per due che non ce l’hanno fatta, magari c’è chi alla fine della lotta ha quella botta di culo che gli permette di andare avanti. “Vorrei che qualcuno dicesse grazie a te non mi sono arreso”, ha scritto e detto spesso quando pensava di essere in vantaggio nella sua partita decisiva. È un messaggio che vale anche oggi. Perché i tuoi ultimi passi avranno più sapore e il tuo esempio servirà comunque. Gianluca aveva paura della morte. Lo aveva confessato qualche mese fa in tv da Alessandro Cattelan. Ma aveva anche aggiunto: “Il concetto della morte serve a capire e apprezzare la vita”. Lui la vita ha sempre saputo apprezzarla con le cose che hanno un valore reale, la moglie, le figlie, la famiglia, gli amici veri, senza perdere tempo sui social come la maggior parte dei ragazzi di oggi.

Trasmetteva gioia fin da quando i suoi riccioli infiniti hanno iniziato a frequentare le televisioni nazionali con la maglia della Cremonese. È stato un giocatore che oggi può nascere raramente perché ha cominciato all’oratorio in un’epoca in cui non esistevano playstation e telefonini e l’unico sgarro era tirare l’ora di cena tirando calci a un pallone. Arrivare dall’oratorio, anche se sei nato in una famiglia benestante, hai fatto buoni studi, sai parlare con i congiuntivi, ha un suo perché. Sbucciandosi le ginocchia su campi di terra e sassi si impara a soffrire. E poi anche a gioire. Vialli ha interpretato ogni ruolo possibile su un campo da calcio. Ma a lasciare un’eredità è soprattutto l’uomo, quello che una volta scoperta la malattia nel 2017 non si è nascosto, se non all’inizio quando metteva un maglione sotto la camicia per non far vedere quanti chili aveva perso. “Se racconti delle bugie non proteggi le tue figlie o i tuoi cari perché poi una volta che lo scopriranno penseranno che tu non ti fidi di loro. Dopo un mese l’ho raccontato alle mie figlie”.

Da quel momento l’amore attorno a lui è aumentato. E lui ha cominciato a fare solo le cose che gli piacevano e a dire più spesso “ti voglio bene”. Certo, fa un certo effetto risentire oggi le interviste in cui raccontava “La vita, e non l'ho detto io ma lo condivido in pieno, è fatta per il 20 per cento da quello che ti succede ma per l'80 per cento dal modo in cui tu reagisci a quello che accade. E la malattia ti può insegnare molto, ti può spingere più in là rispetto alla superficialità in cui hai vissuto fino a quel punto. Per me il cancro non è una battaglia, ma uno compagno di viaggio che spero prima o poi si stanchi di stare con me. Devo andare avanti a testa bassa, senza mollare mai, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora per tanti anni”.

L’alieno, come lo chiamava Oriana Fallaci invece non se ne è andato. Poco più di cinque anni dopo essersi presentato con un mal di schiena, era ancora lì a portarsi via per sempre l’uomo che aveva superato il campione. “I nostri figli seguono il nostro esempio più delle nostre parole, quindi credo di avere meno tempo, adesso che so che non morirò di vecchiaia”, diceva. Sapeva che la sua partita sarebbe potuta andare ai supplementari e poi magari ai rigori. Ma non aveva mai perso lo spirito con cui aveva riempito anche l’ultima comunicazione ufficiale, quella dell’addio alla Nazionale: “Al termine di una lunga e difficoltosa 'trattativa' con il mio meraviglioso team di oncologi”. La sua eredità è l’esempio che ha dato: “Cerco di essere un esempio positivo, cerco di insegnare alle mie figlie che la felicità dipende dalla prospettiva attraverso la quale tu guardi la vita, che non ti devi dare delle arie, devi ascoltare di più e parlare di meno, devi cercare di migliorarti ogni giorno, devi ridere spesso, devi aiutare gli altri e le aiuto a trovare la loro vocazione. Lo scopo della vita è trovare uno scopo della vita”. Sofia e Olivia ne hanno trovato un altro. Rendere orgoglioso quel padre che le veglia da lassù.

 

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