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qatar 2022 - facce da mondiale

Awer Mabil si è stancato della retorica sul suo passato

Francesco Gottardi

“La gente vuole mostrarsi dispiaciuta per me, ma in pochi cercano di capire davvero chi sono: un calciatore". Perché tra l'essere stato un rifugiato e l'essere uno dei soli quattro australiani ad aver segnato in Champions League piace più la prima?

La prima cosa che si tende a raccontare su Awer Mabil è l’ultima che lui vorrebbe sentirsi dire: l’attaccante rifugiato di questo Mondiale, da un campo profughi del Kenya alla nazionale australiana. “Sta storia inizia a starmi sulle scatole”, ribatte il ragazzo alla vigilia del gran debutto, martedì contro la Francia. “La gente vuole mostrarsi dispiaciuta per me, ma in pochi cercano di capire davvero chi sono”. I titoloni strappalacrime eclissano tutto il resto: “Quello che si è formato a partire dal mio arrivo ad Adelaide, quando avevo 10 anni”. E l’ha portato a diventare uno dei soli quattro calciatori australiani a segnare in Champions League. “Lo sapevate, questo?”.

    

Oggi Mabil ha 27 anni. Da qualche mese vive da beniamino in patria: suo il rigore decisivo che ha permesso ai Socceroos di superare il Perù nello spareggio interzona. Ma aveva lasciato l’Australia nel 2015, diventando un globetrotter. Danimarca, Portogallo, Turchia. Ora il Cadice, nella Liga spagnola. “Capisco che il mio nome sia associato a un lungo viaggio”, spiega Awer intervistato dal Guardian. “Ma preferisco sottolinearne un altro. Perché non è facile trovare spazio. Il calcio europeo ha certi pregiudizi nei confronti di chi arriva dal mio paese. E io posso raccontare come superarli: è in queste vesti che voglio essere d’ispirazione ai bambini”.

   

Ci sono almeno tre Mabil da considerare. È innegabile che a prestarsi alla narrativa dell’incredibile sia il primo: nato da genitori sud-sudanesi scappati dalla guerra e cresciuto in una postazione delle Nazioni unite nella Rift valley. Si viveva di nulla. Per inventarsi un pallone da calcio, Awer e i suoi amici dovevano accartocciare sacchetti di plastica. Oggi lui non rinnega quell’esperienza, attenzione, ma la retorica che se ne fa. “Quei tempi mi hanno insegnato il valore dell’umiltà: tutti quei palloni che noi professionisti usiamo in allenamento, mi sembrano uno sproposito”.

 

Mabil parte seconda. Nel 2005 la famiglia riesce a emigrare ad Adelaide “e i primi mesi laggiù li ho odiati: volevo tornare indietro”. Il ragazzo non parla inglese, si integra grazie ai dribbling nei campetti. E all’Australia dei grandi in tv, che grazie all’exploit ai Mondiali tedeschi – ci volle il rigore di Totti, per fermarla – lascia un segno indelebile sulla nuova generazione. Quella di Mabil, che continua a giocare sognando Tim Cahill e l’Europa. Perché tutti i migliori sono lì. I fatti gli danno fiducia: firma il suo primo contratto professionistico con l’Adelaide United a nemmeno 17 anni, appena due giorni dopo debutta nell’A-league locale. Trova i primi gol e soprattutto gli assist, marchio di fabbrica dell’esterno offensivo che sarà.

 

E veniamo alla terza fase: il passaggio al Midtjylland sette anni fa. Si spalancano così le porte del vecchio continente. Dove i tifosi acclamano gli strappi sulla fascia di Mabil, agile e tecnico. Gli dicono che non sembra nemmeno australiano. Risposta: “Sentiamo, come dovrebbe giocare un australiano? Questo immaginario deve cambiare”. Essere il paese del rugby non aiuta. O magari sì. “Ormai il calcio è lo sport più praticato dai ragazzi di Sidney. E a giugno anche il Perù ci ha sottovalutati: è stata la nostra forza per volare in Qatar”.

 

Capitolo quarto, tutto da scrivere. “L’Australia ha dato un’opportunità a me e alla mia famiglia”, la carica di Awer. “Il modo migliore per ringraziarla era portarla ai Mondiali. Ora abbiamo i mezzi per superare il girone”, stretti tra Francia, Danimarca e Tunisia. “E sogniamo di arrivare ai quarti di finale”. Nessuno ci punterebbe un centesimo. Ma va benissimo così: è da tutta la vita che Mabil rovescia pronostici.