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nel nome del padre

Sandro Mazzola era un precursore

Furio Zara

Era fantasioso e solido, poggiava la sua classe sullo stile, ma all’occorrenza sapeva farsi artigiano. Gli ottanta anni del grande capitano dell'Inter, cresciuto nel mito di Valentino, prima di riassumere nel suo gioco una certa idea di modernità che sarebbe arrivata negli anni a seguire

Tutta la vita passata a dimostrare di essere all’altezza di un padre, di un’ombra del passato che è sempre presente, di un pensiero fisso che torna ogni volta che dai un calcio a un pallone e la traiettoria che ne deriva segue un destino che non è mai solo il tuo, ma è di entrambi. Nel celebrare oggi gli ottant’anni di Sandro Mazzola – Sandrino, figlio del grande Valentino – siamo qui a dar ragione a Sigmund Freud. Sosteneva il nostro che il rapporto tra padre e figlio è improntato sulla rivalità. Se per il figlio – all’inizio della storia – il padre è un modello, poi diventa un ostacolo da superare e infine un rivale da combattere. A Sandro Mazzola – che aveva solo sette anni quando perse suo padre Valentino, morto nella tragedia di Superga – un destino malvagio ha sottratto la possibilità degli ultimi due passaggi esistenziali – il padre ostacolo, il padre rivale – congelando i due nel territorio dove il padre è per sempre un mito da emulare e al figlio tocca farsi carico di una responsabilità troppo grande per essere dribblata.

   

Foto Ansa
     

In alcune foto d’archivio, così come in certe immagini sgranate di repertorio, i due Mazzola – con il padre che prende per mano il figlio – entrano in campo, in quella chiesa del calcio che era il Filadelfia: l’uno con la baldanza dell’atleta forte e sano, l’altro trotterellando allegro, con la fragilità di chi cerca di stare dentro i passi di chi lo precede, rifugiandosi sotto la sua ala. Siamo tutti figli di una storia comune, figli dei nostri padri, ma anche – soprattutto – del nostro talento e dei nostri sacrifici. E in questo senso la luminosa carriera di Sandro Mazzola sta lì a dirci esattamente quello.

 

Scoperto da Giuseppe Meazza, protetto da Benito “Veleno” Lorenzi, lanciato in prima squadra da Helenio Herrera: Mazzola per tutta la vita è stato la bandiera dell’Inter, 417 presenze, 116 reti distillate in diciassette anni (1960-1977) attraversati di corsa, con i pantaloncini corti e strizzati sulle cosce, guizzando in area di rigore, dentro quei pomeriggi di luce al neon che ammorbavano San Siro in quell’epoca in bianco e nero. E poi dirigente, in due fasi diverse, dal 1977 al 1984 – con la presidenza Fraizzoli – e dal 1995 al 1999, al fianco di Moratti, per un totale di altri undici anni.

 

Con la maglia dell’Inter Mazzola ha vinto tutto quello che si poteva vincere – quattro scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali – marcando con il proprio incedere una stagione, gli anni Sessanta, in cui l’Italia stava cambiando pelle e il calcio diventatava pop.

 

Nel provare a definire il contorno tecnico di Mazzola, vien da dire che sia stato – suo malgrado, lui con lo sguardo così volto all’indietro, a suo padre Valentino – un precursore, un anticipatore dei tempi, capace di riassumere nel suo gioco una certa idea di modernità che sarebbe arrivata negli anni a seguire, nel filo che unisce Paolo Rossi e Baggio, fino a Del Piero e Totti, gli unici nostri veri campioni planetari dell’era recente.

 

Mazzola era secco, filiforme, poteva sembrare fragile – così magrolino – ma era legato con il fil di ferro. Aveva una velocità di pensiero e di esecuzione fenomenali, era quasi sbrigativo nella sua capacità di imprimere a ogni decisione un'accelerazione. Sapeva eludere la sorveglianza degli avversari facendo perno su un repertorio di finte, mosse, scatti e cambi di direzione che - oggi, nel calcio moderno - costituirebbero un valore aggiunto. Più di Gianni Rivera – il suo alter ego, più rotondo e più armonico nel pensare/giocare a calcio – il Mazzola di sessant’anni fa riuscirebbe a calarsi nei nostri contesti domenicali con una disinvoltura senza pari, quasi senza sforzo. Tanto che viene facile immaginarlo – perché no? – con la maglia del City o del Real Madrid: elegante nel porsi, fulmineo nello scatto, micidiale nell’esecuzione. Mazzola parte prima punta – a inizio carriera, nella Grande Inter del Mago era un virtuoso contropiedista – per poi – come si usava ai suoi tempi – arretrare il suo raggio d’azione e dispensare calcio da una prospettiva diversa, dimostrando una invidiabile attitudine ad adattarsi alle nuove esigenze tattiche di un calcio che stava cambiando pelle. Era fantasioso e solido, poggiava la sua classe sullo stile, ma all’occorrenza sapeva farsi artigiano. Non è nemmeno leale cercare – ancora una volta – di paragonarlo al padre. Valentino Mazzola non è stato solo un uomo-squadra, ma una squadra riassunta in un solo uomo e l’unica certezza è l’impossibilità della replica, seppur avallata dal dna.

 

La vera vittoria di Mazzola risiede nel fatto di aver mantenuto fede alla promessa del figlio che cerca se stesso nel padre, riuscendo però non tanto a sfilarsi dal paragone – missione ardua – quanto a sostenerlo, gol dopo gol, dribbling dopo dribbling scatto dopo scatto. È stato infatti – Sandro Mazzola – un uomo del suo tempo – ha giocato in un’età in cui ogni futuro sembrava plausibile – un bambino infinito come lo sono tutti i fuoriclasse baciati dalla grazia, un figlio che – anche oggi, a ottant’anni – se chiude gli occhi si rivede là, con un pallone sotto al braccio e una mano tesa a cercare quella del padre, prima di entrare in campo a giocarsi – solo eppure mai da solo – il destino.

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