Alex Sandro e Lautaro Martinez durante l’ultima sfida tra Inter e Juve, la finale di Coppa Italia all’Olimpico del maggio scorso (foto LaPresse) 

il foglio sportivo

C'è più futuro in Atalanta-Napoli che in Juventus-Inter

Giuseppe Pastore

Il derby d’Italia è solo la terza partita della giornata. Inzaghi in un mese ha ridisegnato la squadra, Allegri la cerca ancora

Una vecchissima abitudine novecentesca, inventata da Gianni Brera, prevedeva che l’ordine d’importanza delle partite di una giornata di campionato fosse stabilito dalla somma dei punti in classifica. In un turno con Juventus-Inter in calendario, quasi sempre il calcolo era del tutto superfluo: eppure in questo weekend ci sono non una ma ben due partite che sopravanzano il cosiddetto “derby d’Italia”, per usare un’espressione ultraboomer almeno tanto quanto il metodo breriano. Atalanta-Napoli, seconda contro prima, insieme fanno 59 punti; Roma e Lazio ne sommano 49. Juve-Inter si piazza al terzo posto, con appena 46 punti, ed è forse questa la maniera migliore di introdurre una sfida che ultimamente ha preso molta polvere.

 

Secondo la leggenda, “Quanta polvere su quel quadro” furono le ultime parole del bandito Jesse James. Stava rassettando un dipinto appeso al muro, pochi secondi prima di essere freddato alla nuca da un colpo di Smith&Wesson sparato dall’amico Robert Ford, codardo e traditore: una frase metaforica della scomparsa dei valori di una volta, rapidamente sostituiti dall’imminente dittatura del denaro e dell’utile. Non solo di romanticismo, ma nemmeno di quegli utili c'è più traccia lontana negli ultimi bilanci di Juventus e Inter, che dopo il bagno di sangue ratificato dagli ultimi consigli d'amministrazione (-140 milioni per l'Inter, -254 per la Juventus) affilano le lame su un'ultima spiaggia in cui chi perde di fatto non ha più alcuna chance di scudetto, ma anche chi vince continua a non sentirsi troppo bene.

 

Non si sentono molto bene nemmeno tante stelle precocemente annunciate e mai nemmeno accese. L’equazione Pogba=Lukaku è ingenerosa per il gigante belga che ha sempre avuto un fisico problematico e sta cercando il modo di gestirsi per il Mondiale, mentre il francese appare ormai allo sbando sotto numerosi punti di vista: ha preteso di auto-gestirsi in maniera demenziale per salire sull’aereo per il Qatar, non gioca una partita intera da marzo e fuori dal campo vive vicende contorte e preoccupanti. È lui, purtroppo, la faccia da copertina della filosofia anti-calcistica di Arrivabene, ben riassunta nella risposta a Tuttosport che gli chiedeva da dove nascesse l’operazione Pogback: “Apri una porta, lanci un nome, tutti ti guardano come se fossi matto e poi, piano piano, la macchina si avvia e costruisci l’operazione. A partire da una domanda: ma perché non prendiamo Pogba?” (30 giugno 2022, quanta polvere su quel quadro).

 

Quanto agli altri grandi offesi, Brozovic e Di Maria se la stanno prendendo estremamente comoda, spalleggiati dalle rispettive Nazionali e probabilmente assecondati per quieto vivere dalle società che gli versano lo stipendio. Si tratta di quattro cardini la cui assenza imponeva per forza profonde riflessioni tattiche. Ben allenata da Inzaghi, l’Inter ha trovato in un mese la soluzione del puzzle: senza rimandarsi a gennaio o addirittura a giugno, ma facendo con quello che aveva in casa, puntando sui sempre ottimi autunni di Calhanoglu (che notoriamente soffre di sindrome letargica invernale), oppure confidando nel senso di responsabilità dello strepitoso Lautaro, uno che il Mondiale lo giocherà da titolare nell’Argentina ma non ha tirato indietro la gamba di un centimetro. Mentre Allegri – per usare un’espressione di Antonio Conte – ci tiene sempre a passare un po’ come quello che lancia il cappello in aria. Anche la recentissima moda dei giovani, etero-indotta quasi per disperazione dallo stillicidio di infortuni, ha qualcosa di posticcio così come i colpi di fulmine per i Fagioli della situazione, almeno finché Allegri non concederà loro sette, otto partite di fila, senza accantonarli per un mese al primo errore com’è successo a Miretti dopo il rigore provocato in Juventus-Benfica, episodio spartiacque della sciagurata campagna europea.

 

Così l’Inter rigenerata arriva alla Juve con le idee chiarissime. Ha superato bene una brutta crisi e sappiamo bene che chi sopravvive a una tempesta ne esce più forte. Ha capito che Perisic non tornerà indietro e dopo qualche imbarazzo non s’è vergognata di sostituirlo con il valoroso Dimarco, ha preso atto che di Lukaku fino a Natale non se ne parla e se la gioca volentieri con Dzeko. Soprattutto, ha riammodernato la comfort zone del 3-5-2 dandosi un nuovo guardiano, più mobile, più contemporaneo, più vivo: finalmente è passata da Handanovic a Onana, perché anche al passatismo c’è un limite. Invece la Juve ogni tre passi si guarda alle spalle, si chiede come stanno Chiesa e Pogba, e se Di Maria ha recuperato, e poi come va la pubalgia di Vlahovic, la coscia di Bremer, il bicipite femorale di Paredes. Da essere una convinta scelta artistica del suo superpagato nuovo-vecchio condottiero, la recita a soggetto s’è impadronita di tutti i gangli vitali della società. Quella di questi mesi è la negazione delle Juve migliori, che solitamente dava il meglio nelle grandi serate: questa ha fatto zero punti in quattro partite contro Paris Saint-Germain e Benfica finendo persino per rallegrarsi di un’onorevole sconfitta interna contro Messi e compagni. A furia di rammendi e rimpasti ha perso male col Milan, ha rimediato un pareggio insipido con la Roma e ha già rimediato un distacco dal primo posto nell’ordine della doppia cifra. Un simulacro di grande squadra: “Simili a degli eroi”, come recita il primo verso dell’incongruo inno che parte bizzarramente dagli altoparlanti dello Stadium pure quando la Juve perde, com’è successo anche mercoledì sera contro il Psg.

 

Collocata nel primo weekend autenticamente autunnale dell’anno, da qualunque parte la osserviate Juventus-Inter è un mucchio selvaggio, un western vecchio e freddo sganciato dalla modernità di un calcio che corre in una direzione che le due società sembrano non volere o non potere imboccare. Non è più partita di eroi e nemmeno da vecchi veleni, in questo 2022-quasi-2023 in cui si celebrano (per così dire) le nozze d’argento del tamponamento tra Ronaldo e Iuliano. Eppure, potrebbe ancora essere molto divertente, faticosa ma saporita come una cena abbondante in trattoria, di quelle che poi ci metti una vita a prendere sonno.

Di più su questi argomenti: