Foto Wikimedia Commons  

ovali sgonfi

Sta crollando il rugby in Inghilterra?

Marco Pastonesi

Sono finiti in liquidazione i Warriors di Worcester e i Wasps di Coventry. Covid, Brexit e crisi energetica stanno indebolendo il sistema rugby, che però sembra poter reggere

I primi a precipitare sono stati i Warriors di Worcester. Per i Guerrieri, anno di fondazione 1871, in cassaforte tre campionati e una coppa inglesi, una battaglia persa lo scorso 5 ottobre quando l’Alta Corte di Giustizia ha sentenziato la sospensione dai tornei, lo stato di liquidazione della società e la rescissione immediata dei contratti non solo con i giocatori, ma con tutti i dipendenti. Un debito – un baratro – di 21 milioni di sterline. “È finita come il Titanic – ha confessato Steve Diamond, director of rugby dei Warriors, un diamante (diamond) molto spento – La nave è affondata e da nessuna parte si vedono i capitani”.

 

I secondi a fallire sono stati i Wasps di Londra, pardon, di Coventry. Per le Vespe, anno di fondazione 1867, un patrimonio di sei campionati inglesi, tre coppe europee e tre anglo-gallesi, l’amministrazione controllata è stata decretata lo scorso 22 ottobre, per un totale di 167 licenziamenti, fra cui l’italiano Matteo Minozzi, 23 presenze e 55 punti con la Nazionale italiana. Andrew Sheridan, uno dei due amministratori, ha ammesso il dramma, se non la tragedia: “Ma ora non possiamo fermarci. L’obiettivo primario sarà aiutare chi ha perso il lavoro e cercare di trovare qualcuno che possa acquisire gli Wasps, trovare un accordo, saldare le posizioni scoperte e voler ripartire”. Diciamoci la verità: impossibile.

  

Ma com’è potuto succedere che l’impero ovale inglese si sia crepato o, peggio, stia crollando? Il rugby sta all’Inghilterra come lo slittino ad Anterselva e la scherma a Jesi, come la pallanuoto a Recco e il nuoto sincronizzato a Savona, ma moltiplicato all’ennesima potenza. Davide (quei piccoli miracoli all’italiana) e Golia (il gigantesco sistema nato come una trasgressione al calcio proprio in Inghilterra, a Rugby, da cui il nome del gioco). L’Inghilterra come la Madre Patria, la Madre Regina, la proprietaria di quel palazzo del potere, l’International Board (“i parrucconi” era l’epiteto più raffinato rivolto ai suoi dirigenti), in cui dettava legge finché il mondo le si è rivoltato imponendole nel 1987 la Coppa del mondo (e il rugby è stato l’ultimo degli sport a confrontarsi in un campionato intercontinentale).

 

È successo che qualche dirigente abbia esagerato. Think big, alla grande, ma troppo. Quando si spende più di quello che si ha, quando esce più di quello che entra, quando si tira al rialzo e non al ribasso, quando si vive – questo l’ha spiegato Bill Sweeney, il presidente della federrugby inglese – al di sopra delle proprie possibilità, quando si presume, forse quando ci s’illude, probabilmente quando ci s’inganna pensando che il “giocattolo” non possa mai rompersi, più è grande e meno si rompe. E invece no: si è rotto.

 

I Warriors detengono il triste primato in ordine cronologico. Il caso dei Wasps è ancora più esemplare. Per cercare di rimediare alla cattiva gestione, nel 2015 si era deciso di trasferirsi da Londra (troppe squadre, troppa concorrenza) a Coventry (150 chilometri a nord-ovest della capitale), l’investimento era stato enorme, ma si puntava a rientrare grazie alla biglietteria (un’arena da oltre 32mila posti) e alle attività collaterali (hotel, casinò, megaparcheggio, negozi e supermercati). Ma prima la pandemia e il lockdown, poi la Brexit, la guerra in Ucraina e la conseguente crisi economica, devastante a lungo termine e al culmine proprio in questi giorni (peggio che nella Seconda guerra mondiale, secondo alcuni osservatori), hanno amplificato le difficoltà e fatto saltare programmi e previsioni, conti e bilanci, coppe e campionati, contratti e carriere. Minozzi si è trovato a spasso, disoccupato, da un venerdì a un sabato.

  

E adesso, tutti si domandano allarmati, il sistema reggerà o imploderà? Enzo Belluardo, studioso del rugby internazionale, dice di sì: “Perché il rugby in Inghilterra si fonda su basi solide, storiche culturali geografiche scolastiche, perché vanta un’enorme massa critica, perché ha un valore potenziale altissimo, perché gli introiti dei diritti televisivi e quelli derivanti dal merchandising costituiscono, per chi si gestisce responsabilmente, un patrimonio rassicurante”. Tant’è che lo spettacolo non si ferma e la Premiership va avanti: squadre ridotte da 13 a 11, formula che non prevede retrocessione, qualche giocatore di Warriors e Wasps già ingaggiato con la formula del prestito, poi si vedrà.

  

E altrove? Se la Francia continua la sua politica nazionalista, fondata sulla propria storia e sulle proprie forze, Galles, Irlanda e Scozia da tempo si guardano intorno, altrove, oltre oceano. E cercano sostegni, sempre attraverso i diritti televisivi ma anche la biglietteria, negli Stati Uniti. Belluardo fa un esempio: “Italia-All Blacks, lo scorso novembre, fu vista da circa 30 mila spettatori allo stadio, a Roma, e 360mila alla tv, in Italia. Una settimana più tardi Galles-All Blacks fu vista da 80 mila spettatori, a Cardiff, biglietti esauritissimi da mesi, e 8 milioni alla tv, in Europa. Non solo. Per la trasmissione della partita negli Stati Uniti la federrugby gallese ha chiesto e ottenuto 8 milioni di euro per i diritti tv”. E l’Irlanda ha trovato, in alternativa all’Aviva Stadium, la casa dei verdi a Dublino, il Soldier Field, lo stadio dei Chicago Bears, football americano, a Chicago. Quando, nel novembre 2016, gli irlandesi sconfissero i neozelandesi, nei 61.500 posti l’accento era quello di Dublino e Belfast, perché a Chicago c’è la più forte comunità irlandese. La terza capitale.

Di più su questi argomenti: