Foto ASO/Thomas Maheux 

Cecilie Uttrup Ludwig è una liberazione

Giovanni Battistuzzi

A Epernay la campionessa danese ha vinto la terza tappa del Tour de France Femmes: una cascata di lacrime e sorrisi e parole che, al solito, è l'evidenza di quanto si può essere "felici in bicicletta"

Ha pianto, ha sorriso, poi ha pianto di nuovo, ma mentre sorrideva. E ogni sorriso era una lacrima e dopo ogni lacrima un sorriso. E poi smorfie, attacchi di gioia purissima, e parole parole e parole che avvolgono travolgono attraggono, perché così diverse dalle altre, quelle dei più, perché i non detti non ci sono, c'è solo una familiarità gravitante, come fosse in un altrove domestico e non davanti a una telecamera, davanti a un giornalista microfono in mano. Dopo una tappa, la terza del Tour de France Femmes, il primo dopo troppo tempo, che l'ha vista esplodere di gioia dopo aver fatto esplodere le resistenze delle altre, della maglia gialla Marianne Vos in primis, sull'ultimo strappo che portava all'arrivo di Epernay.

      

   

Cecilie Uttrup Ludwig è ascendente, scattante, in sella a una bicicletta come giù dalla bicicletta. Eppure esistono due Cecile Uttrup Ludwig, una in sella e una giù dalla bicicletta, diverse, la prima travolgente, un'addizione di espressioni, sentimenti e parole, sempre, a ogni parola che dice, ogni, o quasi, intervista che rilascia; la seconda morigerata, quasi parca, che si guarda attorno, analizza, sottrae il superfluo e cerca l'essenziale, il momento giusto, perché, come disse al termine del Mondiale del 2020, “con certe campionesse in giro, c'è da pensarci bene a cosa fare”. Si riferiva a Anna van der Breggen, a Annemiek van Vleuten, a Elisa Longo Borghini e Marianne Vos.

Va forte Cecilie Uttrup Ludwig, è sempre andata forte, ma un filo sotto le altre, che lei va ed è sempre andata forte quando la strada sale, e in Danimarca di salite ce ne sono poche. E allora pur di pedalare è partita, e pur di continuare a pedalare s'è ritrovata a lavorare in un supermercato, e lontana da casa, in un altro paese, l'Olanda. Almeno lì poteva non sentire quello che le dicevano: “Vuoi diventare una ciclista? Non ci arriverai mai. E se ci si arriverai, non sarai sicuramente una professionista. E anche riuscirai a essere un professionista, non sarai in grado di essere all'altezza delle altre”, ha detto a Rouleur.

Se ne è fregata di quello che dicevano, ha continuato a pedalare, perché “mi diverto a correre in bicicletta, c'è da essere felici in bicicletta, io lo sono sempre”.

 

Foto ASO/Thomas Maheux 
   

Una felicità esplosiva, che non esce del tutto mentre pedala, ma che poi esplode fuori, perché il ciclismo, il suo ciclismo almeno, non è poi così diverso dal teatro: è controllo e interpretazione, spiritualità che si materializza in un gesto, ma modulato sulla tecnica. In bicicletta. Perché giù dalla bicicletta ecco la liberazione totale, il flusso, disordinato e irresistibile, il mondo di Cecilie Uttrup Ludwig che raggiunge tutto e tutto include perché altro non può fare se non questo. Cecilie Uttrup Ludwig è l'evidenza sportiva che il teatro di Jerzy Grotowski non è solo una lezione chiusa, o aperta anzi, su di un palcoscenico, ma che, inconsapevolmente, è arrivata pure nel ciclismo, al Tour de France, in quel tumulto di parole e gesti e lacrime e pura gioia di Cecilie Uttrup Ludwig, perché “è stata una gran giornata, un bel ritorno dopo un fottuto giorno di merda, ieri. Perdere Marta (Cavalli), cadere e dover rialzarsi. Ho apprezzato il modo in cui la squadra ha mantenuto lo spirito combattivo, sapevamo che oggi (ieri) poteva essere una giornata super buona e che se avessi le gambe avrei potuto provare a vincere, ma per farlo per davvero, vincere una tappa del Tour de France e con questa maglia (quella di campionessa nazionale danese), ecco, wow”.