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Tour de France. L'inganno di Mende e del Massiccio Centrale

Giovanni Battistuzzi

Michael Matthews vince la quattordicesima tappa del Tour. Secondo Alberto Bettiol. La battaglia tra Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar continua

Mende è un grande inganno. Almeno al Tour de France. Perché la Grande Boucle a Mende, paese, non ci arriva mai, lo oltrepassa e guarda sempre più in su, verso il Mont Mimat, lì dove c'è l’aeroporto. Il Tour forse si vergogna del paese di Mende, e sì che sarebbe pure carino, con una bella cattedrale, parecchi resti di un passato medievale parecchio florido. Forse semplicemente al Tour non bastano i suoi settecentotrendue metri sul livello del mare (medi), per questo aggiunge sempre qualche centinaia, quelli della Côte de la Croix Neuve: trecento metri di dislivello in meno di tre chilometri, ossia una bastonata sui polpacci.

Salita da scalatori, e pure raffinati, verrebbe da pensare. Nulla è come sembra però a Mende, perché pure la Côte de la Croix Neuve è un inganno e su quei tre chilometri scarsi si va avanti di resistenza, pure un po’ ignorante, e quasi mai di raffinatezza scalatrice.

E va a finire così, perché prima di Mende non ci si risparmia mai. Né nei giorni prima, né nelle ore precedenti. Il Massiccio centrale d’altra parte è in mezzo ad Alpi e Pirenei e soprattutto è un saliscendi continuo che affanna anche i corridori più resistenti. Ti si pianta addosso il Massiccio Centrale e spesso uno se lo ritrova infilato tra l’aorta e l’intenzione. E anche nei giorni successivi. Va a finire che si fatica, si soffre, ci si stacca e ci si ritrova a pedalare affianco a un tipo che si appiglia al tubo della sella e dice: sono il Massiccio centrale. Forse anche per questo che a nessuno sta simpatico il Massiccio centrale e nessuno sogna di vincerci.

Neppure Michael Matthews sognava di vincere sul Massiccio centrale. Avrebbe preferito altro, ma si può mica fare tropo gli schizzinosi, soprattutto perché quella di oggi sul Massiccio centrale, la quattordicesima tappa del Tour de France, è stata una di quelle giornate che non finirà nel dimenticatoio di questa Grande Boucle, anche perché il dimenticatoio questo Tour l’ha abolito – ce lo ricorderemo per tanto e tanto tempo e con quel sorriso sornione e soddisfatto di chi pensa a quanto era buono un piatto, un dolce, un amore – e si ostina a proporre una revisione moderna, ossia antica, del ciclismo, una versione di questo sport nella quale è valido tutto tranne pensare che l’oggi sia uguale all’ieri e nella quale vige un principio che suona vecchio e passato e fuori tema ma che è pienamente in tema: l’immaginazione al potere.

Perché altrimenti viene difficile da capire perché i primi due della classifica generale, la maglia gialla Jonas Vingegaard e la maglia bianca Tadej Pogacar, si siano dati battaglia con scatti, inseguimenti e tentativi di imboscata che di chilometri all'arrivo ne mancavano più di centottanta, se non per il fatto, del tutto non evidente, che Pogacar s’era immaginato qualcosa e aveva provato a inseguirlo. E forse l’aveva visto pure Vingegaard e non gli era piaciuto affatto. Oppure non aveva visto niente, ma anche se uno non vede niente è sempre meglio creare fastidio nell’immaginazione dello sloveno che si sa mai.

Pure Michael Matthews forse una volta s’era immaginato di vincere una tappa con oltre tremila metri di dislivello e con un arrivo quasi in salita. Poi s’era messo a ridere, forse, e a dire che si inseguono mica le farfalle.

Era un corridore veloce e resistente, Michael Matthews. Lo è ancora, ma ora è più uno resistente e veloce, che sembra non cambiare nulla ma in realtà cambia tutto. Uno che non pedala solo, ma pedalando ragiona e pedalando e ragionando, quando non si perde nei pensieri, capita anche questo, trova il modo per rendere a tutti gli altri più dura la corsa di come in realtà è, e trova il modo di farsi trovare al punto giusto nel momento giusto. Gruppo permettendo. Perché uno può fare per bene i calcoli, ma se poi si dannano in tutti per riprenderti va a finire male.

Il gruppo ha permesso. Matthews s’è permesso di fare ciò che aveva forse immaginato, ma si era mai preso la briga di investigare se fosse davvero possibile. Lo ha fatto scattando ben prima dell’ultima salita, guidando un terzetto di corridori che nelle gambe c’hanno un complesso heavy metal – Luis Leon Sanchez, Andreas Kron e Felix Großschartner ­– e poi abbandonandoli al loro destino quando sembrava certo che il gruppetto degli inseguitori stesse per rientrare e superare tutti. Che c’erano Thibaut Pinot, Jakob Fuglsang, Marc Soler, Rigoberto Uran, Lennard Kämna e Alberto Bettiol, gente di un certo pedigree. Ma conta niente il pedigree. E conta ancor meno l’apparenza nelle zone di Mente. Lo sa Alberto Bettiol che era scattato, aveva raggiunto Matthews e l’aveva staccato. Sembrava che potesse finire davanti a tutti e di parecchio. Michael Matthews però non si era staccato di molto, non era andato in crisi, anzi lo aveva raggiunto e poi staccato. È un gran bel inganno Mende, anzi il Mont Mimat, lì dove si trova l’aeroporto, che il Tour si vergogna del paese di Mende.