(foto EPA)

Il ritorno di Sinner, che partiva sconfitto e ha sovvertito il suo destino

Giorgia Mecca

Per lungo tempo l'italiano è stato il predestinato. Ma negli ultimi mesi rispetto allo spagnolo si è sentito inferiore. Domenica ha vinto giocando con leggerezza, nell'ombra, senza il peso delle aspettative

E’ stato il predestinato, un cognome su cui costruire titoli di giornale, una faccia buona per le copertine, un’intensità di gioco che ricorda Djokovic, risposta al servizio e rovescio. Chissà quanto pesano le aspettative degli altri sulle spalle di un diciottenne, diventato macchina da soldi prima ancora di avere la patente. Gli sponsor però non fanno beneficenza, ripongono fiducia a caro prezzo. E chissà dopo quante sconfitte un fenomeno sospetta di non essere abbastanza fenomeno. “Cercavamo il prossimo numero uno al mondo, sospettavamo fosse Sinner, poi però è arrivato Alcaraz”, questo dicevano i commentatori americani a proposito della next gen. Difficile dar loro torto: nel 2022, 32 vittorie e 4 sconfitte per lo spagnolo, 27 vittorie e 8 sconfitte per l’italiano; in totale quattro titoli a zero. Da una parte un giocatore che pare immune agli infortuni, dall’altra vesciche, Covid, gastroenterite, muscolatura non pervenuta.  Fuori dal campo poi, dal team di Alcaraz trapelano solo sorrisi e armonia, Sinner a inizio anno ha divorziato dal suo storico coach e mentore Riccardo Piatti e ci ha messo del tempo prima di ritrovare equilibrio.  

Certo, il tennis impone il fair play, condivisione degli spogliatoi, rispetto degli avversari e strette di mano. Ma Sinner non è un cyborg, è fatto di carne e sangue anche lui. E da esseri umani possiamo solo supporre il fastidio, il dolore, la normalissima invidia che può aver provato a essere scavalcato nel ranking e nelle quotazioni da un ragazzo di ventuno mesi più giovane di lui. Era il primo della lista dei primi, ha smesso di esserlo all’improvviso, una specie di rancore è il minimo che si possa provare. Jannik Sinner, domenica, è sceso sul campo centrale di Wimbledon contro i favori del pronostico. A parte i precedenti (due, di cui uno a livello challenger) tutti a favore dello spagnolo, guardandoli durante il riscaldamento a impressionare è stato il divario fisico, Alcaraz grande e grosso, Sinner che fa venire i brividi a ogni scivolata per via di quelle gambe magre, rese ancora più sottili dal paragone.

Poteva essere una sentenza, la definitiva manifestazione di inferiorità, la presa di coscienza di essere il peggiore tra i due dentro il campo più famoso del mondo nel giorno in cui il Centrale festeggiava i cento anni. Fenomeno ma non abbastanza, campione ma non campionissimo. Nello sport dell’uno contro uno, è difficile ritrovarsi, da soli, dalla parte dei vinti dopo avere avuto la garanzia di essere un vincitore.  Sinner è stato l’unico a credere di poter vincere la sfida contro Alcaraz, non aveva niente da perdere, lo sapeva, tutte le aspettative che negli anni gli hanno appiccicato addosso in quel momento appartenevano a un altro, il ragazzo che stava dall’altra parte della rete. Che leggerezza allora, giocare nell’ombra, da under dog per la prima volta nella vita, che tranquillità regala la sensazione di poter giocare senza pressione, partendo da perdente la notizia è la vittoria. Ancora una volta Sinner ha ribaltato i pronostici, senza perdere un solo turno al servizio, concentrato dal primo all’ultimo punto. Ha vinto di testa, di fisico e di coraggio. Ha vinto perché, come ha scritto un giorno Patrick Mouratoglou, la frustrazione è il miglior motore che ci sia.

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