(foto di Ansa)

Il Foglio sportivo

Vogare a Venezia, il piacere della lentezza

Francesco Gottardi

Uno sport fragile come la città (le gondole non c’entrano). Un viaggio nelle case del remo lagunare che rischiano di scomparire

Tutto fluttua, attorno al remo. Nello spazio e nel tempo. Due domeniche fa, per la millenaria Festa della Sensa, il corteo acqueo ha celebrato il perpetuo sposalizio fra Venezia e il mare. Ma anche la consegna dell’anello dogale alla città di Odessa, “perché tutto il mondo possa testimoniare la nostra vicinanza alla popolazione ucraina”. Era già successo di Martedì grasso, mesi fa, quando una curiosa processione increspava il silenzio del Canal Grande: equipaggi in maschera, tricorni del Settecento e arcobaleni della pace. Gonfalone di San Marco e bandiera di Kyiv, una su ogni poppa. Tra folklore e attualità. “È il nostro modo di allacciare la tradizione al presente. Di dare un messaggio nella nostra lingua”. Dai ponti la gente approva. Applaude. Presto tornerà a non farci caso. L’atmosfera della voga è così: densa e labile come un fuoco d’artificio. Senza botto però. “Quello lo lasciamo alle barche a motore”.

 

Venezia riparte, si risolleva dal traumatico biennio di pandemia e acque alte. “Ma sapete una cosa? Il coronavirus per la natura lagunare è stato un atto miracoloso: ci ha riconsegnato i nostri canali e nuovi appassionati”. Giorgio Nardo ha 66 anni, è un ex lavoratore del porto in pensione e il presidente dell’Associazione remiere Punta San Giobbe: l’hangar del remo più imponente del centro storico. “Otto società, una flotta da 180 natanti e 800 iscritti. Quasi un centinaio di arruolati nei lockdown”. Ricordate la runner mania? La versione locale è il vogatore. “Perché eravamo uno sport autorizzato anche in zona arancione. Finora siamo sempre andati avanti di tasca nostra, mantenendo quote associative molto basse – sotto i 100 euro a semestre, ndr – e offrendo corsi gratuiti ai neofiti: si impara da zero, a terra, poi ognuno esce con la barca quando vuole”.

 

La storia delle remiere è sempre stata un gioco a incastro. “In origine i grandi campioni erano gondolieri e pescatori, con i loro scafi da lavoro”, spiega Nardo. “Poi nel 1975 si è tenuta la prima Vogalonga”, domenica scorsa la 46esima edizione: “Una maratona acquea amatoriale contro il moto ondoso, che da subito ottenne enorme popolarità. Così l’antica tecnica si reinventò sport, occupando gli spazi abbandonati dal comune per trasformarli in case del remo”. Un’eccellenza locale autogestita. Fino a qualche settimana fa: “Sfruttando un pretesto, le autorità cittadine hanno imposto il commissariamento della struttura che da vent’anni ci era affidata attraverso un contratto d’affitto. Ora subentreranno spese a carico dei contribuenti e addio realtà associativa. Senza alcuna garanzia per il futuro delle remiere”. Da Burano alla terraferma, dall’Arsenale al Lido: 35 in tutta la laguna. “Oltre 5.000 praticanti e 1.500 imbarcazioni, comprese le 300 gondole esterne ai nostri circuiti”.

Sembrano grandi numeri. “Invece siamo una goccia nell’oceano: cinquant’anni fa si contavano 12.500 mezzi a motore. Oggi se ne stimano circa 90.000”. Più di uno per abitante. Uno sproposito. “Taxi, cofani, trasportatori: tutti sembrano avere una gran fretta”, interviene Elena Almansi, consulente del lavoro 29enne e regatante attivista. Il traguardo più agognato? “La parità di genere per i premi della Regata storica: anche il nostro evento più noto non è una competizione professionistica riconosciuta, ma una vetrina per la città sostenuta da fondi pubblici”. Quindi in ballo ci sono rimborsi spese, più che trofei. “Ritenere che le donne possano promuovere l’immagine di Venezia meno degli uomini è un autogol clamoroso”. L’anno scorso tirava aria di cambiamento. “Tanti proclami, bandi comunali. Poi invece mi è arrivato un assegno niente affatto pari. Nessuno si cura del nostro movimento, nemmeno su una tematica simile. Figurarsi per il traffico acqueo”.

 

Problema di altre dimensioni. “Ogni giorno la somma di tutti i tracciati percorsi qui dai motori coprirebbe la distanza Venezia-Reykjavik”, continua Almansi. “Flutti e inquinamento distruggono l’ecosistema e le fondamenta della città. Non ci sono regole né sanzioni, la gente sfreccia a 80 all’ora”. Travolgendo le imbarcazioni a remi, fragili bellezze. “La nostra è pura passione, evadiamo dal caos per vivere una laguna altra. Selvaggia, fra ibis del Nilo e fenicotteri. Chi voga ha una sensibilità diversa nei confronti di Venezia: più rispetto del prossimo, dei suoi tempi. E del suo tempo, perché conoscere venti e maree è essenziale. Purtroppo, tutto questo attorno a noi manca”. Due mondi all’opposto. “Spesso ci riuniamo in protesta pacifica contro il moto ondoso, nel Bacino di San Marco. E veniamo accolti dagli insulti dei naviganti a motore. Ma siamo una flotta difficile da ignorare: un centinaio di barche a vela, da voga, canoe, sanpierote solidali. Soltanto due gondolieri, però. Per tutti gli altri ormai è un semplice lavoro”.

 

La cultura del remo stenta. “Eppure facciamo di tutto per diffonderla. Dalle scuole alle lezioni ai vacanzieri”. Almansi è anche membro di Row Venice, associazione non-profit di voga e turismo sostenibile. “Cambierebbe la prospettiva della città. Venezia va a fondo e il remo la segue: da anni i praticanti sono circa il 5 per cento dei residenti”. Ma su una platea sempre più sottile. “Il momento è duro per tutti”, conviene il presidente Nardo. “E a differenza di quel che si crede, gran parte della voga non ha a che fare con regate o agonismo. I soci del mio cantiere respirano il territorio, organizzano escursioni per isolette e barene. Lì, soprattutto, si fermano a contemplare”. Perfino Milan Kundera dedicò un intero libro alla lentezza: “Nel nostro mondo”, si legge, “l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca”. A Venezia quel piacere dimenticato si dice camóma. È intraducibile, come il cigolio di una forcola.

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