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Milan, Roma e il potere euforizzante della festa

Moris Gasparri

Cosa c’è dietro ai festeggiamenti infiniti dei rossoneri e dei giallorossi

I grandi festeggiamenti per il diciannovesimo scudetto del Milan, e quelli per la Conference League vinta dalla Roma, offrono materiale interessante per una riflessione sull’essenza e il potere del calcio. Perfettamente riposto e conservato nell’involucro modernizzante del capitalismo finanziario e delle sue acquisizioni miliardarie, dei nuovi strumenti di comunicazione digitale e dei follower da intrattenere, delle criptovalute e dei giocatori-azienda, al fondo del calcio contemporaneo, in questo caso quello italico, batte un cuore arcaico, più che in ogni altro sport. 

 

Fu l’antropologo Desmond Morris a notare come l’esultanza urlante dei calciatori conseguente alla segnatura di un gol, così poco consona ai comportamenti “moderni” improntati alla razionalità di scopo, rimandasse in linea diretta alle età primitive della caccia, in cui catturare un bene scarso come le prede animali era un momento di profonda e vitale euforia per la comunità, tanto quanto lo è oggi un gol vincente (altro bene scarso) della propria squadra. Sappiamo inoltre che il potere di seduzione spettacolare dei grandi eventi sportivi contemporanei non è dissimile da quello avvertito dagli spettatori degli spettacoli agonistici dell’antichità greco-romana.

 

C’è però un terzo grande elemento archetipico che fa parte dell’universo calcistico, la festa, momento originario della vicenda umana sul pianeta Terra, quello in cui ci si riconosce come partecipi di una comunità, e che un grande filosofo come Emanuele Severino collegava al grido umano che si fa coralità, comunanza, danza. La festa del calcio, in particolare quella derivante dalle grandi vittorie inaspettate e lungamente attese, è davvero un elemento rituale capace di produrre profondi effetti di magia e rottura dell’ordinarietà.

 

La notizia è proprio questa: nel calcio italiano è ripreso a circolare il potere euforizzante della festa. Se in termini agonistici il decennio calcistico 2010-2020 può essere interpretato come quello della perdita di competitività internazionale dei nostri club, in quelli antropologici lo stesso periodo storico può essere catalogato come quello della rarefazione del potere della festa, con annessa trasformazione in senso monarchico del suo rito. 

 

L’irripetibile ciclo vincente della Juventus ha avuto infatti questo particolare segno antropologico: vincere sempre e ripetutamente, rendere atteso l’inatteso, certo l’incerto, regolare lo straordinario, diminuisce il potere festivo della vittoria. Quello che gli dèi accordano in grandezza e gloria personale agli ottenitori di tali traguardi, viene tolto dagli stessi in diminuita felicità collettiva ed ebbrezza dionisiaca. I popoli calcistici che vincono con molta frequenza esperiscono meno godimento festante rispetto a quelli che vincono con maggiore intermittenza. Con un paradosso: il già menzionato club capace di trasformare magistralmente un bene scarso ed effimero come la vittoria in produzione seriale, è lo stesso che da quasi tre decenni è consumato dall’attesa per la “vittoria delle vittorie” della Champions League, ricerca che nel suo mancato appagamento è diventata nel decennio suddetto praticamente l’unica occasione di esultanza per il nutrito “popolo dei senza-vittoria” e “senza-festa”: milanisti, interisti, romanisti, napoletani, torinisti, fiorentini e via elencando, uniti in una geopolitica del tifo che ha nel versante tirrenico il suo heartland. Esultanza che però ha avuto i caratteri della festa trattenuta e non dell’estasi orgiastica, rito da celebrare in salotto e non in pubblica piazza per non scadere in shakespeariana vergogna in cerca del proprio rossore, sentimento reattivo, implicita ammissione d’inferiorità e debolezza sportiva.

 

Vincere de vez en cuando non è quindi una maledizione, anzi. La festa del Milan è stata così grande perché inattesa e contro pronostico (così come inattesa e contro pronostico fu la vittoria juventina del 5 maggio 2002), ed è stata anche festa delle diaspore o dei rossoneri non “autoctoni”, smentita carnale alle semplificazioni sui tifosi globalizzati senza volto e senza identità, mutanti pericolosi sempre pronti a cambiare fede. Un aspetto ha però fatto molto discutere: gli insulti e le sguaiatezze di alcuni calciatori rossoneri durante la parata celebrativa.

   

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La lettura antropologica che stiamo tentando ci invita al realismo. Non si possono togliere dalle esplosioni di festa calcistica gli insulti alle squadre rivali, certamente non eleganti, educativi e retti, ma altrettanto essenziali alla consumazione del rito. Non esiste in natura tifo “a favore” che non sia anche “tifo contro”, anzi, il secondo elemento è dialetticamente più importante del primo; si tifa in primo luogo perché c’è un nemico da contrastare simbolicamente, che ossessiona e plasma la propria identità, come abbiamo già spiegato analizzando la dimensione agonistica del Palio di Siena. L’agonismo sportivo, nella sua essenza, è rendere invidiosi gli altri, e nel caso del popolo rossonero questo ha significato sia l’esibizione gaudente di una festa resa impossibile un anno fa ai cugini-rivali dell’Inter, bloccati e trattenuti nel coito festoso dalle norme sanitarie sul Covid, oppure la fornitura agli stessi di dettagliate proposte di geolocalizzazione anatomica circa il posizionamento in bacheca della Coppa Italia vinta contro la Juventus, a fomentare l’invidia per il ben più prestigioso titolo perso.

 

La grande e poco riconosciuta importanza antropologica del tifo calcistico non è la dimostrazione che i tifosi sono bestie, banalità a buon mercato che trova sempre molti seguaci, ma che è l’umanità in quanto tale a conservare una parte bestiale, che il tifo sprigiona per contenerla, dandole una forma accettabile e regolata, che, nel caso della festa, spesso si esprime nelle forme dell’antico rito carnevalesco, in cui le regole abituali del vivere civile sono sì sciolte e sospese, ma solo per breve tempo. Questo ovviamente non giustifica gli sconfinamenti nella protervia, nella liceità assoluta o nell’esibizione muscolare di linguaggi parafascisti e paramafiosi, mentalità tipica di certe frange ultras, ma segnala una logica di realismo prepotente rispetto a ogni volontà moralizzante.

 

La seconda figurazione del potere festivo del calcio è stata quella del popolo giallorosso, al primo successo in una competizione europea sotto l’egida della Uefa. Il momento intellettualmente più alto della stagione calcistica appena conclusa è stato sicuramente il dialogo avvenuto lo scorso 29 marzo presso la Biblioteca Apostolica Vaticana tra José Mourinho e il cardinale portoghese José Tolentino Mendonça, che L’Osservatore Romano ha meritoriamente pubblicato in forma integrale.

 

Il filosofo portoghese Manuel Franco, colui che ha coniato il motto “chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio”, poi ripreso e reso celebre dal suo allievo più famoso, che lo ebbe come docente nel suo corso di laurea in Scienze Motorie, ama dire che non ci sono tiri, ma persone che tirano.

 

Sulla stessa falsariga, potremmo dire che non ci sono tifosi, intesi come astrazioni numeriche buone per le analisi di mercato, ma persone che tifano. Gli intensi festeggiamenti per la vittoria della Roma, anche questi ingenuamente criticati da chi non riesce a comprendere l’abissale profondità antropologica del calcio e anche questi intrisi di tinte carnevalesche, sono una grande illustrazione di quanto una vittoria possa modellare in profondità le relazioni umane, i legami tra genitori e figli, nonni e nipoti, amici e parenti, forgiando la memoria collettiva. Nel dialogo sopra menzionato c’è un passaggio molto significativo, in cui Mourinho confessa che dopo aver trascorso la sua carriera a voler vincere per sé stesso, per esaltare le capacità soprannaturali della propria figura, nel suo soggiorno romano si sente dominato dal desiderio di vincere per gli altri, per la comunità.

 

C’è un’immagine plastica di questo cambiamento. Nella notte del triplete di Madrid, nella festa seguita al “decennio d’umiliazione” interista (libera reinterpretazione del secolo d’umiliazione cinese), Mourinho fuggì con l’auto messa a disposizione dal Real Madrid, negando così l’ostensione del proprio corpo nella festa con il popolo nerazzurro radunato a San Siro, sessualmente desideroso di unirsi in copula al proprio condottiero. A Roma invece è accaduto il contrario, un concedersi divertito e commosso alla folla festante. Potremmo chiamarla la stagione dell’umanesimo mourinhianom e della sua “democrazia della vittoria”.