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Maurizio Zamparini ha fatto il grillino prima di Grillo. Ma era un gioco

Roberto Perrone

Per anni ha arringato le folle calcistiche in una sorta di "vaffa day", battendosi contro i "poteri forti" e le consorterie tra i grandi club, accusando tutti delle peggiori nefandezze con definizioni Beppe Grillo-style. Ha rispettato per bene la parte che si era costruito

Maurizio Zamparini, imprenditore, ex presidente di Pordenone, Venezia e soprattutto Palermo (2002-2018), scomparso a ottant'anni nella notte tra lunedì e martedì, era un grillino prima dei grillini. Per anni ha arringato le folle calcistiche in una sorta di "vaffa day", battendosi contro i "poteri forti" e le consorterie tra i grandi club, accusando tutti delle peggiori nefandezze con definizioni Beppe Grillo-style: "Lotito soffre di delirio di onnipotenza, prima di lui ne hanno sofferto Mussolini e Craxi". Anche se non ha mai usato la stessa espressione, voleva aprire la Lega calcio "come una scatola di tonno". Non ci è riuscito e se fosse rimasto a frequentarla, invece di mollare il football inseguito dalle accuse di falso in bilancio e autoriciclaggio e costretto, per un periodo, agli arresti domiciliari, avrebbe visto la medesima aprirsi da sola, come sta succedendo in questi giorni.

A differenza dei pentastellati, comunque, Zamparini sapeva che era tutto un gioco delle parti, "in cui ognuno recita un ruolo e poi si cambia" (cfr. L. Moggi). Infatti era uno degli ospiti preferiti del Processo di Aldo Biscardi che trasformò il pallone in una sit-com, anche lui sapendo che si trattava di questo, di uno spettacolo, dove non si arrivava da nessuna parte, che le parole in libertà rimanevano lì e alla fine tutti in trattoria. Infatti, querelato, il "Roscio" vinse la causa, perché i giudici sostennero che il suo era uno show, mica roba da perderci il sonno. Nel Processo, Zamparini spopolava, con le sue arringhe e la sua voce cavernosa. Ma si poteva intercettare anche in radio, su molte frequenze, e se lo chiamavi al telefono ti rispondeva. Magari ti mandava a quel paese, se lo facevi arrabbiare, ma rispondeva, era uno della vecchia guardia, diretto. "Allegri sta distruggendo Dybala. Dybala è il calcio, Allegri no".

 

Come tutti i presidenti di una volta, Massimo Moratti docet, amava i giocatori e odiava gli allenatori. Nel suo Palermo si sono formati campioni del Mondo (Zaccardo, Barzagli, Grosso, Toni), d'Europa (Sirigu) e campioni di varie metrature come Amauri, Pastore (per cui attaccò Ibrahimovic, uno dei pochi, accusandolo di essere "invidioso" del "Flaco"), Ilicic, Cavani, Dybala. Magari non li sceglieva tutti lui, ma anche individuare un buon direttore sportivo è un merito. Gli allenatori non è che li odiasse in senso stretto ma per lui erano come figurine. Adorava il "celo/manca". Secondo Wikipedia sono 66, di cui 7 in una sola stagione. Prendiamo il dato con beneficio d'inventario, ma come lui nessuno. Ne avrebbe cacciati di più, uno dopo ogni sconfitta, ma Beppe Marotta, che era con lui al Venezia, lo convinceva a spedire la lettera di licenziamento il martedì, dopo il giorno di riposo. Tanti hanno salvato la ghirba in questo mondo.

Zamparini era un comunicatore, gli piaceva incontrare. Adesso tra fondi e algoritmi, molti dei presidenti di Serie A neanche sappiamo che faccia abbiano. Andò anche da Santoro, da imprenditore, a parlare di Equitalia e contro la pressione fiscale fondò addirittura il "Movimento per la gente - Sicilia e Territorio". Lo slogan (un classico): "I politici hanno fallito".

Gli andò meglio col pallone che con le urne. E, in fondo, era contento così. A differenza dei grillini di cui sopra, sapeva che, una volta al potere, se mai ci fosse arrivato, sarebbe cambiato, travolto da giochi in cui non si sarebbe più divertito. "Ho fatto il don Chisciotte" disse in una delle ultime interviste, prostrato per la perdita del figlio Armando di 23 anni e consapevole che, almeno, una volta c'erano dei mulini a vento contro cui lanciarsi. Ora, neanche più questi.

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