John Madden (LaPresse) 

“buum”

Un uomo chiamato football (americano). L'addio a John Madden

Roberto Gotta

 La vivacità e i compleanni sbagliati dell’esportatore del football nel mondo, dal campo alle telecronache, fino ai videogiochi

Titolo dell’Oakland Tribune del 5 febbraio 1969: “I Raiders scelgono l’allenatore. I Packers perdono Lombardi”. Vince Lombardi era lo storico ex coach dei Green Bay Packers che il giorno prima aveva deciso di dimettersi anche da general manager per passare ai Washington Redskins. Uno dei personaggi più importanti della storia della Nfl, ed ecco perché il quotidiano di tutt’altra zona degli Stati Uniti lo menzionava nel titolo. Menzione della quale non era degno il nuovo allenatore della squadra locale, i Raiders. Nessuno lo conosceva, nonostante avesse fatto già parte dello staff tecnico. Poco più di 50 anni dopo, invece, quello sconosciuto ha lasciato questa terra con una fama tale da essere definito, nel ricordo della Nfl, come “il football”. 

Giocatore, allenatore, telecronista, voce dell’omonimo videogioco, grazie al quale milioni di ragazzi, anche al di fuori degli Stati Uniti, si sono appassionati al football americano, John Madden, 85 anni, è morto nella notte tra martedì e mercoledì a Pleasanton, in California, zona di San Francisco, dove abitava dal 1960. Sessant’anni di football americano da primadonna, ma una primadonna che non poteva che evocare simpatia e trascinare, con quel vocione che quando esclamava “buum” a commentare situazioni di gioco ti pareva quello di un amico esuberante dotato della capacità di farti piacere qualsiasi cosa. La sua carriera di giocatore di fatto era durata pochissimo: dopo il liceo e un paio di college era andato nella Nfl ma si era fatto male a un ginocchio nel precampionato della prima, potenziale stagione, e a quei tempi un infortunio del genere voleva dire il ritiro immediato. Da coach, prima il college poi i professionisti nel ruolo di specialista e, quel 4 febbraio 1969, la nomina a head coach degli Oakland Raiders a soli 32 anni, per scelta anticonformista dell’anticonformista per antonomasia, il proprietario-padre-padrone Al Davis, uno talmente fuori dagli schemi da aver testimoniato, anni dopo, contro la Nfl in una causa importantissima promossa da una lega rivale. Davis lo aveva convinto a nascondersi in un hotel del circondario, prima dell’annuncio, perché la voce della nomina si era già sparsa e “non voglio che tu sia costretto a dire bugie, se un giornalista ti telefona”.

 

Capello rossastro irregolare, fisico imponente, voce profonda, gestualità vistosa, Madden in dieci stagioni alla guida dei Raiders vinse un Super Bowl, quello identificato con i numerali XI, e arrivò in semifinale altre sei volte: piccolo problema, la vittoria arrivò dopo cinque di quelle sconfitte in semifinale, quando già molti avevano cominciato a pensare che quell’allenatore così vivace e roboante non fosse in grado di vincere sul più bello, di trascinare quella squadra, leggendaria per la quantità di disadattati che componevano la rosa, al titolo assoluto. Fu forse anche per questo, e per un’ulcera da stress, che Madden mollò, a soli 42 anni, per darsi alla sua terza carriera, quella di telecronista, nel 1979. 

 

Seconda voce, talent, pundit, a seconda della definizione: emergendo però come fenomeno nazionale, di ironia e autoironia, solo quando, nel 1981, fu affiancato a un altro ex giocatore, Pat Summerall, una combinazione di voci, talenti, osservazioni, spunti che fece epoca, attraversando addirittura tutte e quattro le grandi reti televisive americane: la Cbs del debutto, Fox Sports, Nbc e Abc, perché ogni volta che i diritti sulla Nfl passavano di mano nessuno voleva prendersi la responsabilità di lasciarli fuori. Dal 1988, poi, la sua voce divenne quella del videogioco Madden, e in questa veste la sua popolarità divenne da nazionale a internazionale: generazioni di ragazzi, all’estero, hanno imparato ad apprezzare il football americano grazie al Madden e si sono abituate alla voce del coach e alle sue espressioni da fumetto. La vivacità, ecco, e un pizzico di distacco dal mondo reale e persino famigliare: in uno dei suoi libri ammise di aver un giorno augurato al figlio “buon dodicesimo compleanno” salvo sentirsi rispondere “grazie, papà, ma ne compio 16, non 12”.

 

Un altro tocco di bizzarria: tornando dopo una telecronaca, nel 1979, provò l’ennesimo attacco di panico claustrofobico quando si chiusero le porte dell’aereo, e dalla sera alla mattina smise di volare. Si spostò per decenni prima in treno, partendo il martedì quando doveva arrivare dalla parte opposta degli Stati Uniti per la partita della domenica, poi su un pullman adattato a casa su ruote, il MaddenCruiser. Quando si fermava a mangiare la gente si radunava fuori dal ristorante per poterlo salutare, e ci mancava poco che lo portasse in trionfo come avevano fatto i suoi giocatori dopo quel Super Bowl vinto. “Mi hanno detto che ci sono voluti 5-6 di loro per riuscire a sollevarmi, e subito dopo mi hanno mollato, ma hanno fatto bene. E quello fu il momento più bello della mia vita”.

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