Illustrazione di Giulia Piras

Il Foglio sportivo

Quella folle guerra del fútbol tra El Salvador e Honduras

Fulvio Paglialunga

Tre partite, il preludio a migliaia di morti. Il ruolo del calcio nel conflitto fra i due paesi centroamericani che ispirò Kapuscinski e Galeano

La notte del 27 giugno del 1969 gli stati di El Salvador e Honduras interruppero ogni rapporto diplomatico. Pochi giorni dopo entrarono in guerra. Per il calcio, o meglio, anche per il calcio. Nel lungo elenco di momenti in cui il pallone ha fatto irruzione nella storia, la Guerra del Fútbol è una delle vicende più sanguinose, un conflitto fra poveri – con quasi seimila morti, tra soldati e civili – con le sue radici nella riforma agraria dell'Honduras, nell'immigrazione dei salvadoregni e nelle qualificazioni al Mondiale di Messico 1970. Le prime due motivazioni, concatenate tra loro, sono il contesto in cui questo scontro si sviluppa, il calcio è l’innesto perfetto.

Prima dell’inferno ci furono tre scontri diretti, e le rivendicazioni patriottiche che tracimarono in uno stadio, ma anche per le strade. Tra i dodici paesi centroamericani che si giocavano un posto al Mondiale erano rimasti in quattro, per le semifinali: due erano El Salvador e Honduras (gli altri Stati Uniti e Haiti) e dovevano giocare uno contro l’altro. Il punto non è la sfida tra due paesi confinanti. Il calcio è pieno di sfide tra territori vicini che vogliono affermare la propria supremazia sportiva per ostentarla come supremazia tout court.

 

Qui è il periodo in cui si gioca a rendere possibile il precipitare degli eventi.

Da El Salvador, oscenamente sovraffollato per un’esplosione demografica incontrollata, alla fine degli anni Sessanta erano emigrati quasi 300mila campesiños per lavorare nelle terre inutilizzate dell’Honduras (cinque volte più grande, con la metà degli abitanti). Avevano libertà di transito e di lavoro, forti di un convenzione bilaterale tra i due stati, ma non l’approvazione degli honduregni, che pressarono il loro governo perché lo sviluppo economico non riguardasse solo gli altri o, meglio, non li riguardasse per niente. Il dittatore dell’Honduras, Oswaldo Lopez Arellano, allora, con un provvedimento stabilì la confisca dei terreni e l’espulsione di tutti quelli che avessero una proprietà senza essere cittadini honduregni. Centinaia di migliaia di salvadoregni si ritrovarono senza nulla, profughi verso il loro paese d’origine e nemmeno El Salvador li voleva, per evitare la crisi sociale in casa propria. Lo ha spiegato Edoardo Galeano: “Gli honduregni non avevano lavoro? Perché i salvadoregni venivano a portarglielo via. I salvadoregni morivano di fame? Perché gli honduregni li maltrattavano. Ogni popolo credeva che il suo nemico fosse il vicino”.

Giocare due partite in questa cornice senza che la tensione esondi appariva impossibile.

Diventarono addirittura tre, e fu molto peggio di come si potesse prevedere.

La gara d’andata si giocò a Tegucigalpa, in Honduras, l’8 giugno del 1969. La ferocia si diede appuntamento la sera precedente, sotto l’hotel dove alloggiava l’El Salvador. Gli honduregni lanciarono tutto ciò che potevano lanciare contro le vetrate dell’albergo, fecero rumore, cercarono di rendere impossibile il riposo degli avversari e ci riuscirono. Mentre la gente salvadoregna meditava già la propria vendetta, la loro squadra (che aveva trovato anche le ruote del pullman squarciate) scese in campo evidentemente affaticata, e subì nel finale il gol di Leonard Wells. Nel racconto del reporter di guerra polacco Ryszard Kapuscinski questo risultato fu la causa di una tragedia: Amelia Bolaños, diciottenne figlia di un generale dell’esercito salvadoregno, prese dal cassetto la pistola del padre e si sparò, sconvolta dal dolore per la sua patria sconfitta. Da qui, secondo il racconto, l’ulteriore fame di vendetta di un popolo che aveva anche la sua martire. Di Amelia, però, negli anni nessuno ha mai trovato tracce, e nemmeno del padre, e nemmeno dei particolari raccontati da Kapuscinski (come l’intera nazionale al funerale, trasmesso in diretta televisiva). Ma anche senza la storia di Amelia, probabilmente frutto di fantasia, si stava scatenando la Guerra del Fútbol. “Negli stadi di Tegucigalpa e El Salvador – scrive ancora Galeano – si accesero le scintille che scatenarono l’incendio”.

Per la gara di ritorno, una settimana dopo, la persecuzione notturna toccò all’Honduras, che sospettando la trappola tardò il suo arrivo il più possibile, ma non evitò la violenza, che quando non viene fermata per tempo sa solo crescere in modo esponenziale. Contro l’albergo degli honduregni la gente del Salvador lanciò non solo pietre, ma anche bombe artigianali, persino un razzo (che oltrepassò la stanza del capitano honduregno, Tonin Mendoza), topi e stracci puzzolenti, costringendo i giocatori prima a rifugiarsi sui tetti, poi all’alba a nascondersi nelle case di honduregni che vivevano lì, per andare allo stadio – questo dettaglio lo racconta ancora Kapuscinski – dentro i carri armati. Nell’assalto notturno morì, ucciso a sassate, l’accompagnatore dell’Honduras: “Un ragazzo salvadoregno che ci accompagnava – ha raccontato il difensore Fernando Bulnes –, alle due di notte uscì dall’albergo. Lo presero con dei sassi e vedemmo, attraverso le porte a vetri, come moriva per strada. Di notte non c’era più un vetro sano”. Allo stadio fu anche peggio: l’inno dell'Honduras fu fischiato, la bandiera bruciata e sostituita, nel tempestoso cerimoniale, da uno straccio da cucina. Negli scontri morirono in due e vennero incendiate le auto dei tifosi honduregni. In campo, con la Guardia Nazionale armata ai bordi, vinse ovviamente l’El Salvador, tre a zero. Mario Griffin Cubas, l’allenatore dell’Honduras, nemmeno finse di dispiacersi, visto il clima. Commentò: “Siamo stati fortunati a perdere”.

Il regolamento non prevedeva il risultato cumulato tra andata e ritorno. Il 26 giugno si giocò lo spareggio in campo neutro, mentre dall’Honduras iniziavano le espulsioni dei campesiños. All’Azteca di Città del Messico furono schierati cinquemila poliziotti e non bastarono a sedare la guerriglia sugli spalti e fuori, mentre in campo (c’era pur sempre una gara) l’El Salvador riuscì a vincere 3-2, segnando il gol decisivo nei supplementari con Mauricio Rodriguez, che anni dopo ha raccontato: “Sentivamo di avere il dovere patriottico di vincere. E avevamo paura di perdere: sarebbe stata una vergogna che ci avrebbe accompagnato per il resto della nostra vita. Quello che non sapevamo era l’importanza storica del mio gol: sarebbe stato usato come simbolo di guerra”. Infatti nella notte dopo la partita, al vertice della tensione, i due paesi interruppero formalmente ogni rapporto, il conflitto cominciò a diventare inevitabile e infatti scoppiò il 14 luglio, con l’esercito salvadoregno che entrò nel territorio dell’Honduras. Dopo quattro giorni ci fu il cessate il fuoco, imposto dall’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), con già troppi morti per strada e decine di migliaia di feriti. Per il calcio? Anche: “Il calcio – scrive Ryszard Kapuscinski – contribuì a rinfocolare lo sciovinismo e l’isteria patriottica, tanto necessari per scatenare la guerra e rafforzare il potere dell’oligarchia in entrambi i paesi”. I rapporti rimasero tesi anche dopo la fine della guerra, il trattato di pace fu firmato molto tempo dopo. Proprio il 30 ottobre, come oggi, ma del 1980. L’anno dopo entrambe le nazionali di calcio si qualificarono al Mondiale di Spagna.
 

Di più su questi argomenti: