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Ancora altri tre valzer nel fango. Intervista a Tony Cairoli

Giorgio Burreddu

Il nove volte campione del mondo a novembre chiuderà col professionismo. "Sono davvero orgoglioso di aver vinto tanto, ma io ad ogni nuova stagione facevo un reset, e ricominciavo da capo, come se non avessi mai vinto nulla prima"

Nessuno può toglierci quello che abbiamo ballato. Figuriamoci a lui, che sulle due ruote si è sempre concesso il lusso di un valzer nel fango. Finché ne ha, continua a ballare Tony Cairoli, la leggenda del motocross (9 titoli mondiali conquistati) che a fine stagione (mancano ancora tre gran premi) chiuderà col professionismo. “Poi vedremo. Vorrei affrontare altre sfide, i rally sulle quattro ruote e magari una Dakar. Non lo so se mi sento più libero dopo aver detto basta con le moto, sicuramente era arrivato il momento di farlo e va bene così. Sento di non avere più il fuoco dentro in alcune situazioni”.

La musica sta per finire, ma lui continua a scatenarsi. L’ultimo successo se l’è preso mercoledì scorso, a Pietramurata. Domenica 31 ottobre altro giro, altro valzer sulle strade del Trentino (le ultime due gare, invece, saranno a Mantova il 7 e il 10 novembre). “Voglio lottare per il podio in classifica generale, ho la possibilità di farlo”. Per il titolo non c’è più speranza. Ma rivederlo sul podio dopo un incidente da paura (in Sardegna qualche settimana fa) e a quattro mesi dall’ultima volta è il segno che i duri non mollano davvero mai.

 

Ci si è interrogati spesso sulle ragioni di questa voglia, di questo bisogno di ballare, ballare, ballare. A 36 anni, perché ancora Cairoli è ancora lì? “Lo dico da anni, ma qualcuno non ci crede ancora. I numeri non contano molto. Sono davvero orgoglioso di aver vinto tanto, ma io ad ogni nuova stagione facevo un reset, e ricominciavo da capo, come se non avessi mai vinto nulla prima. Non ho mai inseguito record o cercato di migliorare i miei”.

Schivo fuori, spericolato dentro. Voleva una vita esagerata. Ma non come Steve McQueen. Cairoli è un uomo in subbuglio, che di sé ha detto tutto (o quasi) sulle piste. “Ho fatto uno sport duro e pericoloso per tanti anni e ho raccolto tantissimo, più di quanto avrei mai potuto immaginare”. Anche se, aggiunge, “se proprio devo rammaricarmi per qualcosa è per non essere riuscito a rendere popolare uno sport che secondo me è uno dei più belli al mondo. Noi italiani abbiamo una lunga e consolidata tradizione negli sport a due ruote, sia in pista che in fuoristrada ma il motocross non ha mai trovato lo spazio che meritava sui media”. Qualche anno fa uscì la sua autobiografia. La intitolò “Velocità Fango Gloria”, il suo habitat ogni volta che c’era da rischiare qualcosa. “La paura nello sport c’è, ed è preziosa. Soprattutto se allenata e ben gestita. Aiuta a ridurre i rischio. Paura ne ho avuta nel corso della carriera, è vero. Mai così tanta da essere vera. Quella l’ho avuta solo quando sono salito sulle Frecce Tricolori”.

 

Da ragazzino correva per scappare dai pregiudizi, della malizia, dai luoghi comuni. A Patti, Sicilia. A fare cross erano in tre, “ma eravamo visti quasi come delinquenti” ha raccontato una volta. Il padre gli regalò un Italjet50, e fino ai dieci anni ogni giorno ci saltava sopra. La conserva ancora. “È in palestra, nel seminterrato di casa nostra ed è la prima moto, quella che mi portò a casa mio padre più di trent’anni fa. Anni dopo ci accorgemmo, restaurandola, che il numero di telaio finiva per 222, una coincidenza incredibile”. Lo stesso numero gli fu assegnato “per puro caso” nel 2004. “Ecco, questa piccola moto rappresenta l’inizio di tutto”. Lo stesso numero, il 222, che la Federazione ha deciso di ritirare, simbolo di immensità. “È stata una bellissima sorpresa, sono grato per questo gesto e consapevole che sia un onore riservato a pochi”. Onore e gloria, come quella che ha conquistato a settembre con il Gran Premio delle Nazioni. “L’unico trofeo che mi mancava. E mi ha fatto un certo effetto, ci tenevo a vincere con la maglia dell’Italia. L’ho fatto correndo con uno degli amici più cari (Alessandro Lupino, ex compagno di squadra e testimone di nozze di Tony ndr) e con Mattia (Guadagnini, giovanissimo compagno di team di Tony), che rappresenta la nostra speranza per il motocross azzurro”. Cairoli è un uomo riconoscente alla vita. “Famiglia, amore e salute: sono queste le cose che contano davvero”.

Sua moglie Jill la conobbe alle gare. Le scattò una serie di foto, poi le mandò un poster con un collage dei suoi ritratti. Anonimo. Alla quarta uscita il primo bacio. Oggi hanno un figlio, Chase Ben. “La prima a sapere del ritiro è stata lei, è stata lei a condividere con me il desiderio di dare uno stop alla carriera di pilota e a tutto quello che comporta la vita di un atleta professionista. Da quando stiamo insieme Jill mi segue ovunque nel mondo e ora che è arrivato Chase Ben, siamo in tre a spostarci, quindi non sarà un cambiamento di vita solo per me ma per tutta la famiglia”. Riconosce la vita, ma la sua violenza qualche volta Cairoli non l’ha sopportata. Come quando morì sua madre per un cancro all’utero, e poi suo padre. “Penso ai miei genitori, ai sacrifici che hanno fatto loro e le mie sorelle per permettermi di provarci, devo tutto alla mia famiglia e all’educazione che mi ha dato. Quando ero piccolo, non avendo lo straccio di una lira, correvo tutta la stagione con un set di gomme e a fine anno sui miei pantaloni da cross avevo più toppe che stoffa originale, ma la voglia di impegnarmi, quella non è mancata mai. Dai quattro anni ai trentasei”. Oggi, mentre ancora Tony balla e la festa non finisce mai.

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