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Il foglio sportivo

“I miei cento giorni nel deserto”. Tramezzani racconta la sua avventura in Arabia e la fuga a Sion

Furio Zara

“È durissimo fare calcio in Arabia”, spiega l’ex difensore di Inter e Tottenham dopo la breve esperienza sulla panchina dell’Al-Faisaly: “Gli allenamenti erano condizionati da sette preghiere al giorno”

E alla fine sono rimasti nove sassi del deserto a ricordargli i cento giorni più incredibili della sua vita. “Li ha scelti mia figlia Emily prima di partire, li ha raccolti nel deserto, li ha colorati e mi ha detto: ‘Papà, questi li portiamo con noi’. Ora ce li ho qua davanti a me e quando li guardo ricordo un’esperienza bellissima”. Quando si è trattato di fare la valigia, in fretta e in furia, ché tempo da perdere non ce n'era; Paolo Tramezzani – l'allenatore globe-trotter di anni cinquantuno – quei nove sassi li ha portati con sé, da Riyad a Sion, dall'Arabia Saudita alla Svizzera, da un mondo all'altro. Ora stanno lì, in fila, sopra la scrivania del suo ufficio nella sede del Football Club Sion, siamo nel Cantone Vallese e visto da qui il deserto arabo è una macchia beige su una cartina geografica. Un attimo fa, Tramezzani stava allenando in mezzo al deserto. Ci era arrivato all'inizio di luglio. Cento giorni fa.

 

È successo tutto in fretta, proviamo insieme a riavvolgere il film dell'allenatore che in tre mesi e mezzo è passato da Spalato a Riyad fino a Sion. “Era la fine di giugno quando ho chiuso la stagione alla guida dell’Hajduk Spalato. Tutti soddisfatti, quarto posto, stagione eccellente. Mi arriva una telefonata: il presidente dell’Al-Faisaly vuole parlarmi”. Quando un club ha il prefisso “Al” bisogna immaginare il petrol-calcio. In questo caso: Arabia Saudita. “Ho incontrato i dirigenti dell’Al-Faysal a Belgrado, l’impressione è stata ottima. Ne ho parlato con mia moglie, io sono matto (ride, ndr) ma lei di più. Ci siamo detti: e quando ci capita più un’esperienza di vita così? La mattina dopo siamo partiti, io, mia moglie Elisa e mia figlia più piccola, Emily, che ha otto anni; la grande invece, Desiree, è rimasta a Milano a studiare”.

La cittadina dove ha sede l’Al-Faisaly si chiama Harmah, ci vivono poco poco meno di novemila anime, siamo sull’altopiano del Najd, Riyad sta duecento chilometri e altrettanti anni più in là: se un ipotetico compasso volesse dare contezza del deserto arabo, punterebbe la sua asta esattamente lì, al centro del nulla, dove Paolo Tramezzani aveva fissato la sua residenza. Ritiro di tre settimane in Serbia, campionato arabo iniziato a metà agosto, obiettivo una salvezza tranquilla. In fondo il lavoro di allenatore è uguale ovunque. Tramezzani è abituato a girare il mondo. L’ha fatto da calciatore: dopo una buona carriera spesa in giro per l’Italia, tappe significative Lucchese e Piacenza, con il biennio interista (1992-94) come punto più alto; a fine anni 90 fu tra i primi calciatori italiani ad andare all’estero: Londra, Tottenham. Da allora non ha più smesso di partire. Vice di Gianni De Biasi nella nazionale albanese che conquista la storica qualificazione a Euro 2016, poi Lugano, Sion, Apoel, ancora Sion, il resto è storia recente: Hajduk Spalato, Al-Faisaly, Sion per la terza volta. Un’unica esperienza in Italia, in Serie B a Livorno. arrivato in corsa, due mesi, sette partite, l’esonero. “Stagione complicatissima, ma il campionato italiano non è più nei miei pensieri. Preferisco mettermi in gioco all’estero”.

È andata così nei suoi 100 giorni arabi. “Vivevo ad Harmah, moglie e figlia invece a Ryad, a distanza di due ore di autostrada. Harmah è un villaggio che pare galleggiare in un tempo lontano; Ryad è una città avveniristica, proiettata nel futuro, un’oasi di acciaio e tecnologia: vivere divisi era un problema, anche questo ha pesato sulla scelta di tornare in Europa. Ad Harmah giravo sempre con pantaloni e maniche lunghe, nonostante i quaranta e passa gradi, un inferno. Era per rispettare le loro abitudini, così come mia moglie teneva sempre il velo”. Giusto per ricordarlo: la donna saudita è sottoposta alla tutela di un parente maschio, che può essere il padre, il fratello, il marito. Non ha diritti. Non può viaggiare, sposarsi, lavorare o accedere all’assistenza sanitaria senza il permesso dell’uomo. Deve indossare sempre il velo islamico e “l’abaya”, un vestito lungo come un’agonia che arriva fino ai piedi.

“Sì, per una donna lì è tutto più complicato – continua Tramezzani – Quando sono andato a prendere mia moglie all’aeroporto non ho potuto abbracciarla, è un gesto ritenuto sconveniente. Al ristorante non potevamo entrare insieme, uomini e donne hanno ingressi separati. Ovviamente zero alcol. Niente vino, niente birra. E dire che ogni tanto a tavola io e Elisa ci guardavamo: ma un bicchiere di vino, no? Il vino lo trovavi al mercato nero, ma anche no, grazie: è un rischio altissimo. Qualcosa si muove nella direzione dei diritti, ma è ancora poco: da un paio d’anni le donne possono andare allo stadio, ma sono ghettizzate nel posto più brutto, in uno spicchio scoperto, ci sono solo loro e non possono spostarsi da lì”. E poi c’era il mestiere di allenatore. “Ad Harmah passavo al campo tutte le mie giornate: avevo un traduttore, organizzavo gli allenamenti in base alle preghiere. Tutta la vita degli arabi è scandita dalla preghiera. I miei giocatori pregavano sette volte al giorno. Alle quattro e mezza e alle sei meno un quarto sentivamo le campane delle moschee e allora ci si doveva fermare tutti. Non è facile se vuoi fare calcio in un certo modo, ma devi essere elastico e personalmente credo che ogni esperienza serva ad arricchirti. È stato così anche stavolta”. Finché è durata.

Finché Tramezzani non ha sentito il richiamo di casa. “Ho risolto il contratto in un minuto, senza problemi, hanno capito le mie esigenze e la difficoltà di una vita normale. Mi hanno ringraziato, ho fatto lo stesso io per la bella opportunità che mi avevano offerto: se non fosse stato per il Sion difficilmente avrei lasciato l’Arabia”. È la terza avventura sulla panchina degli svizzeri. Tramezzani trova una squadra in crisi nera. “Ma è andata così anche le altre due volte, ed è finita sempre bene”. Finire, ricominciare. Partire, tornare. Lasciarsi indietro momenti, incontri, orizzonti, attese, destini che si sono compiuti. E nove sassi colorati da tua figlia. Ogni sasso un colore diverso, ogni colore un ricordo. Ci sono allenatori che allenano se stessi alla vita: Paolo Tramezzani, quello con l’ombra del trolley a seguirlo, un biglietto d’aereo nella tasca della giacca, uno sguardo pronto a stupirsi.

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