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Il Foglio sportivo

Una FA Cup da Marine

Roberto Gotta

Viaggio a Crosby a scoprire la squadra che nove mesi fa sfidò gli Spurs

La sabbia nelle scarpe, ecco. Basterebbe poco, agli steward del Marine AFC, per identificare i turisti calcistici, gli appassionati che da nove mesi, dall’ormai storica sfida al terzo turno di FA Cup, la coppa d’Inghilterra, del 10 gennaio scorso contro il Tottenham Hotspur, 161 posizioni di classifica (e 0-5 finale) a separare le due squadre, hanno deciso che una puntata al Rossett Park va programmata. Siamo a Crosby, cittadina di mare di 50.000 abitanti, circa 10 chilometri e un quarto d’ora di trenino a nord di Liverpool. La sabbia è quella dell’ampia spiaggia che parte dall’adiacente Waterloo, dove il porto della metropoli si trasforma in quartieri periferici persino gradevoli rispetto alla media inglese.

Chi arriva in visita inevitabilmente finisce per passare qui a vedere Another Place, la celeberrima installazione del 1997 dello scultore Antony Gormley, 71 anni: 100 statue di rame, una identica all’altra, di esseri umani – di sesso maschile, modellati sul corpo dell’artista stesso – rivolti verso il Mare d’Irlanda e seppelliti nella rena a varie altezze. Estremamente suggestivi all’alba e al tramonto, che li colgono rispettivamente di spalle e di fronte, persino inquietanti nella loro fissità quieta e disperata e nella snervante similitudine con chiunque sia di passaggio e abbia l’idea di fermarsi in una posa simile, rivolto verso il mare. A visitare Another Place può essere solo un foresto, uno di fuorivia, non certo i locali, che ormai ci sono abituati: non è del resto che un tifoso del Milan o dell’Inter passi per il Duomo ogni volta che va al Meazza. Dopo, tutti allo stadio, con quel che resta della sabbia dopo il chilometro da percorrere a piedi, in cui Crosby rivela se stessa: un paesone in cui va a vivere generalmente chi ha un lavoro a Liverpool ma vuole evitarne il caos e le zone di degrado. Non per nulla qui ha abitato Carlo Ancelotti durante il suo breve periodo all’Everton e abita tuttora Jamie Carragher, scouser, ossia liverpudlian, al cento per cento. E lo si nota percorrendo alcune delle strade tra la stazione, la chilometrica Blundellsands&Crosby, e il mare: recinzioni, muretti, residenze di livello medio-alto, una fuga dalla città tra tranquillità e del fogliame avvolgente. Che si riduce, avvicinandosi allo stadio. Il famoso stadio incastrato tra le case, con tribuna principale e tribuna stampa… dietro una porta, un rettilineo di parterre (coperto) a tre gradini, di cui quello più basso e quello più alto utilizzati per vedere la partita e quello centrale per il passaggio, e con il lato delle panchine protetto dalla rete di separazione dai giardini posteriori di alcune residenze e i famosi cartelli con i rispettivi numeri civici, così che si sappia dove andare a bussare per recuperare il pallone quando finisce al di là.

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Martedì scorso, nella partita di campionato contro il Kidsgrove Athletic, è successo tre volte: e in un caso il rinvio di un difensore avversario ha addirittura oltrepassato i tetti delle residenze, sparendo nella notte già fredda. La cosa curiosa è che lo stadio è venuto prima di una delle file di case, anzi il luogo era stato scelto per la sua relativa abbondanza di spazio, nell’estate del 1903, al momento in cui il club aveva deciso di spostarsi lievemente a nord rispetto a Waterloo, dove era nato nel 1894 al Marine Hotel, in una riunione tra commercianti del luogo.

 

Nove mesi dopo il delirio, nove mesi dopo la diffusione planetaria del proprio nome, il Marine è solido come non mai, forte come non mai, e riceve la saltuaria visita di quei pochi che siano riusciti a ricordarselo, passata la moda del momento. Che aveva rischiato di rovinarsi: pochi giorni prima della sfida era infatti scattato il terzo lockdown britannico e si era dovuta abbandonare la speranza di avere spettatori al campo. Un disastro, perché veniva meno l’elemento folkloristico che piace tanto all’estero, ma un colpo di mano aveva ribaltato tutto: impossibilitati a vendere biglietti veri, al Marine avevano venduto tagliandi virtuali di solidarietà ed erano arrivati quasi a quota 31.000, per un introito di 300.000 sterline che unito ai diritti tv per la diretta e l’afflusso di sponsor hanno cambiato la vita del club. Lo si nota dal lusso della 1894 Bar&Bistro, parquet, divanetti e sedie rinnovati, foto incorniciata di José Mourinho mentre saluta un dirigente, lo si nota dal locale ancora più ampio sul retro, quello nel quale, sovrastati da una palla argentata da discoteca, si erano cambiati a gennaio i giocatori degli Spurs. Locale ora di un’ariosità inusuale già per una squadra di quarta categoria, figuriamoci di ottava. I dirigenti, tutti volontari e tutti benvestiti (“se qualcosa non funziona rivolgetevi ai boss, li riconoscete dalla cravatta e dall’aria depressa”, dice un cartello appeso nei bagni), corrono a destra e a sinistra per rispondere alle esigenze di qualsiasi tipo, dal pallone da gonfiare al visitatore italiano che voglia comprare una spilletta, e il viavai è tale che il pubblico della sera, ufficialmente poco meno di 900 persone, appare almeno doppio come numero. È il mondo della cosiddetta Non League: la fascia di calcio dalla quinta divisione in giù, variegata e impossibile da inquadrare in caselle ma caratterizzata da volontariato dello staff, attaccamento locale, qualche spruzzo di retorica e sorti sportive legate a mille varianti. Quella del Marine è illustre: dopo la fondazione, cominciò abbastanza rapidamente a vincere campionati e coppe locali, militando in una curiosa lega chiamata ‘I Zingari’: nome derivato da quello di una squadra di cricket itinerante – appunto – fondata da un gruppo di atleti che era stato attirato dal nome italiano, con articolo storpiato, sentito pronunciare da uno di loro. Nel 1928 la popolarità del club nel circondario era tale che un quotidiano scriveva “quando si parla di Marine si parla di avanguardia, tanto che allo stadio non si fa solo calcio ma si sono organizzati degli ‘Sports days’ e persino una gara di caviglie femminili”. Eh? Sì: nel 1928 era considerato d’avanguardia una sorta di concorso di bellezza chiamato “pretty ankles”, consistente nell’esibizione, da parte di donne e ragazze coperte da un unico lenzuolo scuro, delle caviglie, ritenute ricettacolo e segnale di bellezza. Ora le uniche articolazioni in concorso sono quelle dei calciatori, e capita – a questi livelli, che non sono di puro dilettantismo perché dal 1974 il club è ufficialmente professionistico – che i contrasti siano parecchio duri e non necessariamente puniti come avverrebbe in campionati maggiori.

 

C’è però la sensazione di una squadra ben costruita, con giocatori inafferrabili come l’ala destra Neil Kengni, tripletta contro il Kidsgrove Athletic. Ora la storia potrebbe in parte ripetersioggi è ritornata la FA Cup e alla Marine Travel Arena è arriva il Wrexham, club gallese che gioca tre serie più su. È finita 1-1. Siamo al quarto turno preliminare, ne mancano ancora tre al traguardo raggiunto lo scorso anno, ma l’atmosfera era già carica martedì scorso e i biglietti andati via in fretta. Se qualcuno si fosse distratto, preso il tagliando al botteghino si trovava di fronte la parete laterale del Bar&Bistro decorata dai 30.000 e passa nomi degli acquirenti dei tagliandi virtuali del gennaio scorso. Non si trovano sul web: per vederli e fotografarli bisogna andare lì e anche questo è un incentivo al turismo, è una spinta a sopportare persino un po’ di sabbia nelle scarpe.

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