Il Foglio sportivo

I gladiatori erano atleti veri

Moris Gasparri

Una mostra al Museo archeologico nazionale di Napoli li libera dalla deformazione di Hollywood e ci restituisce la dimensione contemporanea dello sport disputato oltre duemila anni fa all'interno degli anfiteatri

Lo sport antico non gode di grande considerazione. Apparentemente materia da eruditi e classicisti trasmessa in riviste accademiche o in pubblicazioni specialistiche assai costose, le due discipline a cui dobbiamo la sua conoscenza, filologia e archeologia, non rientrano nelle preoccupazioni primarie o secondarie di atleti, tifosi, appassionati e commentatori. Lo sport vive nel godimento dei suoi spettacoli presenti e nell’eccitazione per quelli futuri, il passato è al massimo memoria personale e inclinazione alla nostalgia, non interrogazione storica della provenienza dell’agonismo. Il Foglio Sportivo è però luogo di pensieri non conformi, e per questo motivo due anni fa assieme a Mauro Berruto inserimmo proprio un archeologo, Paolo Giulierini, dal 2015 direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, nella classifica degli sport thinkers 2019. La motivazione della nomina era dovuta all’importante mostra dedicata all’agonismo antico promossa dal Mann in occasione delle Universiadi di Napoli.. A distanza di due anni, il legame tra sport e archeologia viene ora ripensato da un’altra preziosa mostra sempre organizzata dal museo partenopeo, che rispetto alla precedente ha il carattere della sorpresa. Stiamo parlando della grande esposizione Gladiatori, visitabile fino al 6 gennaio 2022.


La sorpresa non è per il tema scelto, di grande successo popolare, ma per la verità storica che illumina il percorso tra i 160 reperti esposti nella Sala della Meridiana: i gladiatori erano atleti. Con Olimpia e le sue gare, con il Circo Massimo e le sue corse, il Colosseo con i suoi combattimenti completa la trinità ideale dello sport antico. Atleti particolari, particolarissimi, come vedremo tra poco, ma figure legittimamente ascrivibili alla storia dello sport. “Istituzione unica nella storia universale, una delle più originali creazioni del genio italico”: così descrisse i combattimenti e i duelli fra gladiatori lo storico francese Paul Veyne. Ma cosa spiega questa unicità? Prima di rispondere, bisogna sgombrare il campo dalle sedimentazioni di un immaginario cinematografico hollywoodiano, variamente e costantemente reinterpretato, fatto di scontri sanguinosi, violenza incontrollata ed efferata, produzione seriale di morti e cadaveri, in un universo popolato da creature quasi mitologiche metà eroi metà bestie, come se i combattimenti tra gladiatori fossero stati delle incarnazioni di un potere della vittoria come sovranità assoluta dei vivi (i vittoriosi) sui morti (gli sconfitti), automaticamente trasmissibile al pubblico. Deformazione hollywoodiana che, per ammissione dello stesso Ridley Scott, ha la sua matrice nel dipinto Pollice verso in cui uno degli esponenti del neoclassicismo francese ottocentesco, Jean-Leon Gérôme, iconizzò con grande impatto estetico una ritualità, quella degli spettatori che decidevano sulla messa a morte degli sconfitti, non corrispondente alla realtà storica. 


Non eroi demoniaci, ma atleti, dicevamo. Perché i gladiatori condividevano l’essenza della vita atletica, nei suoi due elementi fondanti. Da un lato il confronto competitivo finalizzato al raggiungimento della vittoria, da tenersi sotto lo sguardo partecipe di spettatori radunati in impianti appositi, gli anfiteatri. Nulla più di queste costruzioni antiche esprime il senso dello spettacolo sportivo, non solo perché i nostri stadi devono la loro forma attuale a tali edifici, in una somiglianza architettonica impressionante, ma anche perché, al contrario del Circo Massimo, erano diffusi in moltissime città dell’impero romano (l’Italia ne è disseminata, in particolar modo la Campania, e addirittura negli ultimi anni ne sono riaffiorati di nuovi in precedenza non conosciuti, come dimostrano i recenti scavi archeologici in corso a Volterra). Il tifoso di calcio che si rechi ad assistere a una partita del Real Madrid al Santiago Bernabeu troverà impressa sul proprio biglietto la parola vomitory, traduzione del vomitorium latino che indicava il varco di accesso laterale agli spalti del Colosseo e degli altri anfiteatri, e anche in questo caso, come per il Circo Massimo, è grande il dolore nel saperci eredi infedeli degli architetti e ingegneri della Roma antica, con la nostra ormai cronica incapacità di progettazione e costruzione di grandi impianti sportivi.

Dall’altro lato i gladiatori condividevano la dimensione “ascetica” che caratterizza l’agonismo sportivo, il separarsi dal resto della comunità per esercitarsi costantemente in vista delle gare. I gladiatori vivevano e si preparavano in appositi “centri di allenamento” dette scuole, di cui la più famosa è quella di Capua da cui Spartaco fuggì per dare vita alla celebre rivolta, e la loro pratica quotidiana avveniva sotto l’occhio vigile di allenatori che insegnavano le tecniche di combattimento, e con l’assistenza di figure mediche. Nella mostra viene ricostruita in dettaglio la loro alimentazione particolare a base di cereali e legumi (troviamo addirittura esposta una ciotola con dei semi di miglio ancora conservati), in un ruolo specifico della nutrizione per gli sportivi che dall’antichità a oggi ha cambiato forme ma non la sostanza. Atleti per necessità e non per scelta, legati a una costrizione militare (prigionieri di guerra) o penale o a una condizione di schiavitù, non a un destino liberamente voluto come accadeva per gli atleti greci educati alla competizione sin dalla più giovane età nei ginnasi finanziati pubblicamente dalle città stato greche. Due cose colpiscono più di altre negli affascinanti reperti esposti al Mann. Da un lato la serie di elmi militari indossati dai combattenti nell’arena, pieni di riferimenti mitologici nei vari fregi di cui sono riccamente ornati, in un fascino della maschera intrisa di sudore e fatica che nello sport contemporaneo è trapassato negli atleti della scherma. Gli elmi sono posizionati accanto alle armi, e una di queste, una piccola spada chiamata gladio, è quella che ha poi dato il nome all’intera categoria, che invece in età romana si rappresentava attraverso una pluralità di nomi dipendente dalle diverse strumentazioni militari a disposizione dei combattenti. 


Qui sta il punto dell’inimitabilità di questi particolari atleti. Non dovevano correre più forte o affrontarsi a mani nude, ma inscenare dei combattimenti armati, in una soglia di frontiera tra agonismo e duello bellico, sport e guerra. Era una messa in scena dei valori che avevano assicurato alla civitas romana la supremazia nel mondo mediterraneo, coraggio, valore militare, fortitudo, realizzata attraverso i corpi allenati di chi magari aveva subito sulla propria pelle tale supremazia, a partire dai guerrieri traci come Spartaco. Celebriamo da sempre lo sport come rito di sublimazione della morte, in cui la sconfitta è una morte apparente da cui si resuscita continuamente, ma che allo stesso tempo produce lacerazioni dolorose in chi la subisce. I gladiatori raggiunsero una frontiera ulteriore, sperimentando il potere della vita sulla morte, e viceversa, in senso concreto, perché per i gladiatori esisteva questa possibilità, ben rappresentata al Colosseo dalla Porta Libitinaria, il varco da cui venivano portati fuori dall’arena i cadaveri. La morte era una possibilità, un rischio, che sopraggiungeva abitualmente per le conseguenze dei colpi ricevuti, dando vita a carriere brevissime e usuranti di cui nello sport contemporaneo abbiamo un’approssimazione nel football americano e nei tre anni e mezzo di durata media della carriera di un giocatore Nfl, molto meno per le uccisioni dirette o per le condanne decretate dal pubblico, possibilità esistenti ma rare, anche perché formare gladiatori era economicamente dispendioso, la loro morte significava perdite ingenti per i lanisti, gli impresari che si facevano carico della loro formazione e preparazione.


Altri reperti che catturano l’occhio e le mente del visitatore sono le particolarissime trombe che venivano suonate nell’arena e che facevano parte del cerimoniale, delle vere e proprie vuvuzelas ante litteram, da cui pare di sentire il tumulto e il vociare degli spettatori, e non a caso una precisazione interessante nei pannelli che guidano il percorso per i visitatori è quella sul tifo. Non si tifava solo al Circo Massimo con le ben note fazioni, si tifava anche al Colosseo e ci si divideva in base alla predilezione per una specifica categoria di combattenti, in particolare parmulari (che combattevano con la parmula, lo scudo rotondo) e scutarii. 


A quasi due millenni di distanza, qual è l’eredità sportiva più grande delle lotte tra gladiatori? La rivelazione di una verità poco compresa dello sport contemporaneo. Pensiamo che il potere nello sport appartenga unicamente ai grandi atleti, invece la sua misura più grande appartiene a chi guarda: potere anonimo, impersonale, espanso, ma fortissimo. L’eredità più forte del Colosseo è la “sovranità dello spettatore”, oggi divenuto prevalentemente telespettatore. Nei combattimenti tra gladiatori i giudici di gara vigilavano per garantire che ci fosse una produzione continua di spettacolo eccitante per il pubblico pagante, pronti ad attizzare in senso materiale i concorrenti che non ne producevano abbastanza risparmiandosi nel duello; le competizioni erano pensate per quel fine, c’era una cura del fascino spettacolare minuziosa. Non siamo interamente romanizzati da questo punto di vista? I regolamenti di ogni sport non sono ormai da tempo interamente pensati e di volta in volta emendati per rispondere alla pressione di questo potere, per compiacerlo, per stimolarlo? Non è il motivo per cui in Nba sono state modificate le regole difensive per prevenire la noia di punteggi troppo bassi, nel calcio abbandonati i due punti a vittoria o abolita la presa con le mani del portiere sul retropassaggio, idem nel volley con l’abbandono del cambio-palla, perché rei di abbassare la resa spettacolare fornita da canestri, gol e schiacciate? Siamo tutti eredi inconsapevoli degli anfiteatri romani.

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