#wewillROCyou

A Tokyo non si può dire Russia, ma la squadra è più russa che mai

Micol Flammini

La neutralità è saltata, non basta rifiutare un orso per farla rispettare. Colori, musica e propaganda, anche senza bandiera Mosca si sente ed è inconfondibile

Non serve una bandiera per fare un paese alle Olimpiadi, neppure un inno, neppure un simbolo. Soprattutto se il paese in questione ha intenzione di rendersi riconoscibile con tutti i mezzi di cui dispone, e, se alla fine il Cio decide di non essere neppure troppo rigido e avallare decisioni identitarie difficilmente equivocabili, allora servirà a poco chiamare la Russia Roc, Comitato olimpico russo. Alle Olimpiadi di Tokyo 2020, la Russia, che avrebbe dovuto gareggiare come paese neutrale dopo lo scandalo del doping di stato del 2017, è presentissima. Avrebbe dovuto essere una squadra non squadra, una Russia non Russia, invece i suoi atleti rappresentano a pieno, a volte anche in modo sfacciato, il paese per cui gareggiano. Quasi a dire che la nazionalità è più forte di loro, e loro sono a Tokyo proprio per dimostrarlo. La capitana della squadra di rugby, Alena Tiron, in un’intervista a Ria Novosti ha espresso questo concetto in modo semplice: “Se la bandiera non sarà consentita, noi atleti saremo la bandiera. Sappiamo bene quale paese rappresentiamo”. Diversi commentatori hanno detto che i russi sono arrivati a Tokyo con una mentalità di assedio, che hanno mostrato senza esitazione durante la cerimonia di apertura, aiutati anche dalle loro tute rosse: esibite, a dire il vero, in modo più gioviale che militaresco.   

 

Secondo gli accordi, Mosca e i suoi atleti devono gareggiare sotto l’acronimo Roc, che non deve essere in alcun modo presente per intero, per evitare l’uso dell’aggettivo “russo”. Ma alla cerimonia di apertura, la squadra olimpica è stata invece presentata dagli speaker come: Russian olympic committee. 

 

 

Se la Russia c’è e si vede,  la responsabilità è anche del Cio. Gli atleti non possono sfoggiare le loro bandiere e il nome del paese non deve essere presente sulle loro uniformi, ma i colori nazionali, il bianco, il blu e il rosso, sono rintracciabili ovunque. La squadra di nuoto sincronizzato avrebbe voluto esibire un orso sul costume, ma è stata giudicata una scelta  un po’ troppo russa, a quanto pare, più dei colori nazionali. Dmitri Peskov, il portavoce del Cremlino, ha scherzato sul rifiuto del Cio: “Le regole devono essere rispettate,  ma  l’orso è stato riconosciuto ufficialmente come simbolo della Russia”. 

 

 

Il Comitato olimpico sembra essersi impantanato in una discettazione identitaria sui simboli russi, ma quel che ne è uscito è che la squadra non squadra, il paese non paese, ha una nazionalità pronunciata e visibile e il valore sanzionatorio della mancanza della bandiera e dell’inno ha ormai perso senso. Al posto dell’inno  della Federazione russa, gli atleti che salgono sul  podio, ascoltano il Concerto per pianoforte n° 1 di Caikovskij, ci sono pochi compositori più russi di lui. Il Roc aveva inizialmente proposto di eseguire Katjuša, canzone sovietica diventata molto popolare durante la Seconda guerra mondiale. 

  
A Mosca c’è grande partecipazione da parte dell’opinione pubblica, che ha ben saputo sponsorizzare l’imposizione della neutralità come un atto di russofobia. La portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, la signora della propaganda, ha fatto realizzare  un video per la partenza degli atleti per Tokyo. Una finta conferenza stampa in cui lei incita la squadra non soltanto alla vittoria, ma anche a fare sentire la presenza della nazione. In conclusione lancia l’hashtag: #wewillROCyou. Al sapore battagliero di queste Olimpiadi, il Roc ha anche tentato di preparare gli atleti: c’è un vademecum su come uscire da domande scomode  dalla geopolitica al doping. Per uscire da ogni impiccio basta un “no comment”. Il tentativo di imporre la neutralità alla Russia è poco riuscito. La Wada dovrà arrendersi al fatto che se davvero la squadra arriverà terza nel medagliere, non sarà certo una vittoria per il Roc, ma per la Russia. 
 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.