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Ridere in faccia alla morte

Enrico Brizzi 

Una finale conquistata da stoici, con fioretto e sciabola

Non si cambia mai sino in fondo. L’Italia più bella a memoria di giovanotti e fanciulle, educata da Mancini nell’arte del bel gioco – plasmata finalmente da un’idea tattica, capace nel palleggio, rapida ed efficace – arriva a guadagnare la finale europea con lo stoicismo e la pazienza, le virtù proletarie inscritte nel Dna azzurro sin dai tempi di Bearzot e Vicini.

La vittoria sulla Spagna, di bianco vestita come gli officianti di antichi riti funebri del paganesimo mediterraneo, è parsa meritata e quasi ovvia nella prima frazione, e via via più dubbia, improbabile, pressoché impossibile dopo la rete del pareggio.

Chi non ha tremato fra l’80’ e la proclamazione dei supplementari dev’essere uno spettatore assai distratto del calcio oppure un inguaribile ottimista: i nostri ragazzi erano sulle ginocchia, gli iberici galvanizzati, arrembanti, decisi alla stoccata micidiale.

La paura che gli Azzurri non sopravvivessero ai tempi regolamentari appariva più che giustificata, e la retorica dei telecronisti inclinava ormai all’esaltazione degli avversari: non è forse Llorente figlio e nipote di grandi giocatori, pronipote addirittura della “Saetta” Gento, ultimo di una genìa di velocisti imprendibili? 

Quando le voci dei commentatori attaccano a dipingere i rivali come creature soprannaturali – giganti, dèi del fulmine, frombolieri infallibili – è segno che l’Italia ha un piede nella fossa, e quei bravi professionisti della diretta mettono con delicatezza le mani avanti: bravi gli Azzurri, per carità, ma in fondo chi può vincere contro Achille, Thor, Sigfrido? Risuonavano insomma i presagi più funesti, e tutto pareva perduto, la striscia dell’imbattibilità a un passo dall’essere interrotta, le belle prove offerte nei primi incontri e il saggio di potenza sportiva inscenato contro il Belgio condannati alle pagine malinconiche del ricordo. Non ci restava che l’anticipo del rimpianto, quando alla bonaccia che ci portava alla deriva si è sostituita una brezzolina di speranza: a sprazzi s’era ancora vivi, capaci di lottare, segno che forse non s’era già condannati al naufragio.

I rigori sono arrivati come un sollievo, lo stesso dello studente che si risolve a un esame impegnativo dopo mesi di studio snervante, la gioia barbarica dell’assalto, che per quanto arrischiato è ancora vita, certificazione di non essere marciti invano in trincea.

Poi la risata folle di Chiellini alle prese col sorteggio: all’improvviso il veterano della BBC si è trasformato in Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, e se il capitano ha ancora la forza di ridere, chi sono i soldati per tremare?

In quell’esplosione all’apparenza incongrua d’ilarità c’era il seme di una nuova fede, l’invito a dimenticare il passato, le paure, le beffe subite, l’umiliazione di un Mondiale mancato. Ci si poteva provare, ci si doveva provare. Eravamo sopravvissuti sin lì, segno che si poteva tutto, anche scampare allo sgomento dopo un errore iniziale dal dischetto che il più delle volte si rivela fatale.

L’abbiamo conquistata con il fioretto e la sciabola, questa finale. Che la divina Eupalla di breriana memoria ce la mandi buona ancora una volta, ché il nostro l’abbiamo fatto, e anche qualcosa di più: s’è riso di fronte alla morte, come sanno fare solo i folli e i poeti.