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La Champions se la giocano City e Chelsea. Ma cosa è rimasto del "calcio inglese"

Giorgio Coluccia

Nonostante le resistenze iniziali di un paese storicamente legato ai propri dogmi i club della Premier League si sono europeizzati ben più di quello che era lecito attendersi. Eppure qualcosa di "immutabile" continua a resistere

Niente tattica siamo inglesi, dicevano ai tempi del famigerato kick and rush. Un calcio basato sull’atletismo, la grinta e l’aggressività come retaggio dei pionieri anglosassoni. Maniere spicce, senza troppi fronzoli, che hanno finito per conciliarsi poco e male con l’evoluzione moderna del gioco dilagante in tutto il vecchio continente. Così ancor prima che il football di Sua Maestà si prendesse l’Europa, con due finali di Champions League in tre anni tra Liverpool-Tottenham e Manchester City-Chelsea, è stata l’Europa a contaminare le usanze dei maestri. Nella stagione appena terminata, in Premier League, si sono presentate in panchina ai nastri di partenza tutte le scuole predominanti del calcio europeizzato: due portoghesi, due spagnoli, un italiano, un tedesco, un croato, un norvegese e un austriaco. Da quando la First Division si è evoluta in Premier nessun allenatore inglese ha mai vinto nella massima divisione. L’ultimo, nella stagione 1991/1992, è stato Howard Wilkinson alla guida del Leeds e addirittura per trovarne uno capace di alzare al cielo la Champions League bisogna tornare al 1984 con il trionfo di Joe Fagan a Liverpool. Sembra quasi uno smacco alle radici di questo sport se si pensa che la parola mister, ormai attribuita a qualsiasi tecnico anche nel nostro Paese, arriva proprio da quelle latitudini. Nel 1912 William Garbutt sbarcò in Liguria per guidare il Genoa e venne salutato con un elegante “welcome mister Garbutt”, coniando a sua insaputa un termine entrato da oltre un secolo nel vocabolario di tutti. 

Nonostante le resistenze iniziali di un paese storicamente legato ai propri dogmi, la strada verso un calcio inglese 2.0 sembra ormai tracciata. Pep Guardiola ha impiegato cinque anni e mezzo per condurre il Manchester City alla prima finale di Champions della sua storia. All’inizio le sue parole lasciavano trasparire quasi una resa: “In tutta la mia carriera ho praticato un solo modo di giocare a calcio, fatto di tanti punti fermi. Ve ne dico uno, il pressing alto, e qui mi sembra impossibile perché spesso la palla è più in aria che sull’erba”. Maggiormente conciliante la posizione di Antonio Conte dopo aver vinto la Premier 2016-2017: “L’avvento di tanti allenatori stranieri ha travolto quella vecchia mentalità orientata a trascurare l’aspetto tattico. Un mix invece è possibile, soprattutto per esaltare l’ardore e l’intensità inglese”. 

Quello che resta anche in questa nuova epoca è proprio il ritmo asfissiante impresso alle partite da chi va in campo, vero elemento differenziante rispetto a tutti gli altri campionati europei. Scatti continui, giocate in verticale e transizioni repentine fanno parte del vero dna calcistico inglese, spesso lontano dai propositi di creatività e individualismo. La storia ha lasciato un segno tangibile, le credenziali tanto care a Riccardo I d'Inghilterra, Cuor di Leone, sono state evidenziate alla perfezione dallo scrittore David Winner nel suo ‘Those Feet’: “I calciatori inglesi sono sempre stati tartassati con richieste destinate a esprimere forza, potenza, energia e coraggio. Il resto, dall’intelligenza all’immaginazione, è stato visto come un affare per stranieri”.

Con gli Europei alle porte, sembra allettante l’idea di una trasposizione del modello attuale anche in una Nazionale ancora inchiodata al Mondiale del 1966. Per adesso c’è Southgate, in passato con Eriksson e Capello non è finita bene, ma i tempi sono cambiati. Guardare il calcio inglese, per credere. 

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