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Il Foglio sportivo

Il secondo "tolgo il disturbo" di Buffon

Andrea Romano

Il nuovo addio di Gigi alla Juve senza l’epica e la retorica della prima volta. Nel calcio anche le favole stancano   

Le due scene si assomigliano così tanto che potrebbero anche essere sovrapponibili. In entrambe l’uomo con i guantoni si avvicina a passo svelto ai suoi compagni. Li abbraccia tutti, uno dopo l’altro. Prende le loro teste fra le mani, sussurra qualcosa nelle loro orecchie, stampa le sue labbra sulle loro fronti, sulle loro guance. Poi alza al cielo la Coppa Italia mentre il resto della squadra si mette a danzare intorno a lui come all’ombra di un totem. Le uniche differenze fra quelle notti distanti tre anni sono il colore della sua maglia, non più un’indefinita tonalità di blu ma un giallo pieno, e la sua faccia. Perché sotto quegli zigomi più marcati, sotto quelle rughe più profonde, la sofferenza ha lasciato spazio alla rassegnazione.

In questi giorni Gianluigi Buffon ha salutato la Juventus. Per la seconda volta. Due addii copiati l’uno sopra l’altro con la carta carbone, due separazioni uguali in tutto: pensieri, opere, parole e omissioni. Anche la frase con cui ha annunciato l’uscita di scena è la stessa: “Tolgo il disturbo”. L’aveva pronunciata allora, quando aveva deciso di lasciare anche una Nazionale che doveva essere ricostruita dopo il fallimento dell’era Ventura. L’ha ripetuta adesso, quando ha dichiarato la fine di un ciclo individuale e collettivo. Una frase paracula e ambigua che sottintende una mancanza nel comportamento altrui, che chiama alla levata di scudi, all’ostentazione della solidarietà. Solo che stavolta la retorica si è affievolita. Perché tutte le lacrime sono già state versate nel maggio del 2018, tutti i coccodrilli (sportivi) sono già usciti dai cassetti, tutti gli auguri sono già stati lanciati. Il portiere più forte della nostra storia se ne va dalla squadra dove ha giocato per quasi venti anni con un grazie non più urlato, ma appena sussurrato, con una festa sottodimensionata rispetto alla grandezza del personaggio. E svanito il senso di reciproca irrinunciabilità, rimane un velo di tristezza.

Il primo addio è traumatico. Arriva un mese dopo l’uscita dalla Champions contro il Real Madrid e la famosa frase dell’arbitro col bidone dell’immondizia al posto del cuore. Anche la sua celebrazione è disturbante. Perché va in scena al termine della Coppa Italia, il trofeo in cui Buffon non veniva mai schierato, la competizione che lasciava per gentile concessione al portiere di riserva. Ma anche perché è un annuncio a metà. Gigi non chiude con il calcio. Chiude solo con la Juventus. Il futuro è nebuloso, ma ancora aperto. Dopo qualche giorno arriva un comunicato per annunciare a tutti quello che tutti sapevano già. A quarant’anni Buffon ricomincia dal PSG. Un trasferimento che è manifesto programmatico. Avrebbe cercato a Parigi quel trofeo che gli era sempre sfuggito di mano a Torino. Non andrà come sperato. Tuchel lo schiera titolare in Champions League. Ma la sua corsa si ferma agli ottavi contro lo United. Così dopo un anno ecco il colpo di scena, il “contrordine, compagni”. E il portiere prende la strada inversa. Lui che se n’era andato da numero uno ritorna da numero 77.

Per riabbracciare la Juventus accetta nuove gerarchie e un nuovo ruolo, un po’ riserva di Szczesny, un po’ ambasciatore del club, un po’ raccordo fra squadra e società. Gigi veste nuovamente i panni del supereroe. Anche se il suo mantello è infeltrito, il suo costume ormai liso. Per alcuni versi ricorda Watchmen, il fumetto di Alan Moore dove i paladini mascherati tornano in azione, per cocciutaggine e necessità, anni dopo essere stati dichiarati fuorilegge. Buffon si rimette in gioco. Sfida tutti, ma soprattutto se stesso. Perché quando i fuoriclasse vengono tenuti in panchina troppo a lungo rischiano di diventare mascotte. Quando viene chiamato in causa non sfigura. Le telecamere catturano le sue parate e i suoi smoccolamenti, in proporzioni non sempre uguali. Tutto come al solito. Anche se il cambio di prospettiva è crudele. Nessuno gli chiede più di fare miracoli, perché già il normale diventa straordinario quando hai superato i quarant’anni. La storia va avanti fino all’altra sera. Buffon vince la Coppa Italia e poi viene portato in trionfo dai compagni. Un gesto che di solito i calciatori riservano a chi non è un loro pari, a chi è già fuori, al mister, magari al presidente.

 

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La sua ennesima nuova vita, però, inizierà dopo l'ultima partita di questa stagione. Flaiano diceva che “La nostra saggezza è nel ritenerci poco mortali”. E Buffon sembra averlo preso alla lettera. Continuerà a lottare contro la sua autoestinzione, proverà ancora a scombinare i piani temporali, a dimostrare che il suo presente può ancora sfociare in futuro. Una guerra di resistenza che ha le sembianze della guerra di resistenza di un’intera generazione. “Ultimamente mi è arrivato il messaggio di un dirigente di una società che quanto a follia e ambizione potrebbe superarmi e a me piace questo”, ha detto. In attesa di svelare se ci sarà una nuova destinazione, Buffon sembra essersi trasformato nello Stan Laurel di Osvaldo Soriano, un personaggio consapevole che “è necessario scommettere un’altra volta sulla vita; ma non sa se qualcuno si azzarderà ad accettare la sua scommessa”. Il calcio è lo sport che più di tutti fatica a elaborare un nuovo racconto epico. Forse perché niente nel pallone stanca quanto le favole. E dopo anni passati a tifare per il protagonista, più di qualcuno vorrebbe veder vincere il lupo nero. È per questo che le bandiere ormai non dicono addio alle loro squadre, ma si limitano a togliere il disturbo. 

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