Dino Bruni in una cartolina dell'epoca

romanzi rosa /4

L'estasi della maglia rosa

Marco Pastonesi

Dino Bruni ricorda quel giorno in maglia rosa al Giro d'Italia 1960, il primo senza Fausto Coppi. Gliela sfilò Meo Venturelli a Sorrento

Giro d’Italia 1960, il primo senza Fausto Coppi: con lui qualche mese prima avevo corso la Vuelta nella squadra nazionale italiana. ‘Tuttosport’ lo definì ‘il Giro della speranza’, ‘La Gazzetta dello Sport’ titolò alla vigilia ‘Il Giro in orbita’. La prima tappa, la Roma-Napoli, 212 chilometri. La partenza all’Eur, mossiere il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Puntavamo alla volata, non lasciammo fuggire nessuno, tutti prigionieri, chi scappava non andava lontano. Ma gli ultimi 20 chilometri furono terribili, una battaglia, una guerra, attacchi e contrattacchi. L’arrivo all’Arenaccia, pista in cemento, lunghezza 600 metri o giù di lì. Tutto il giorno avevo risparmiato, limato, sfruttato le ruote di compagni e avversari. Entrai in terza o quarta posizione, poi mi scatenai, uscii all’ultima curva e sul traguardo bruciai Padovan, i belgi Desmet, Daems e Van Looy. Quindi indossai la maglia rosa. La prima e unica della mia carriera. Non ero il primo ferrarese della storia: Walter Fantini l’aveva conquistata nel Giro del 1935, Vincenzo Zucconelli in quello del 1956. Ero felice, entusiasta. In estasi. Mi sembrava di sognare. Ma presto tornai alla realtà. Mentre facevo il giro d’onore, un tifoso cercò di sfilarmi un tubolare”.

  

Dino Bruni, 89 anni, di Portomaggiore, correva per la Ignis: “Patron era Giovanni Borghi, il Commendatore, il re degli elettrodomestici. Direttore sportivo Giovanni Proietti, l’ex commissario tecnico dei dilettanti, anche alle Olimpiadi. Capitano – e compagno di camera – Ercole Baldini. E poi Baffi, Bartolozzi, Cestari, Ciancola, Dante, Falaschi, Fallarini e lo spagnolo Poblet. Quella notte non ricordo dove misi la maglia, se sul letto o sulla poltrona, non credo che la usai come pigiama, mi sembrava un sacrilegio. Il giorno dopo c’era la Sorrento-Sorrento, 25 chilometri a cronometro, salendo e scendendo dal Monte Faito. Prima della partenza Isaia Steffano voleva massaggiarmi i muscoli. Gli dissi di non lavorare troppo, ché tanto la maglia preferivo perderla perché era di una lana che mi pizzicava la pelle e io avevo la pelle molto delicata. L’avrei comunque persa. La salita non era il mio forte, anzi. Trionfò Meo Venturelli su Jacques Anquetil. Meo era fortissimo, però matto, un esibizionista, voleva mettersi in luce ma facendo cose sbagliate. Tre giorni dopo, nella tappa di Rieti, lo vidi fermo, seduto su un paracarro, non voleva più andare avanti”.

 

Bruni era un vincente: “Ma non ne vinsi tante. Però cercavo sempre di vincere, lottavo, combattevo. Lo avevo fatto fin da bambino. A otto anni mi alzavo alle cinque di mattina per mungere le mucche, poi a volte su una vecchia bici portavo il latte all’ospedale. Mi chiamavano ‘l’abissimo’, forse perché avevo un colorito olivastro, o forse perché mio padre aveva combattuto però in Libia, o probabilmente perché correvo nel cortile a piedi scalzi. Il ciclismo fu una folgorazione: ci avevano già provato i miei fratelli, io fui più fortunato, e quando mi incollai e non mi staccai dalla ruota del più forte del paese, capii di avere qualche speranza. La prima bici da corsa fu una Benotto: il meccanico di Portomaggiore me la consegnò dicendo che, se non avessi avuto risultati, gliel’avrei dovuta restituire, oppure pagare. La prima corsa la conclusi contro un albero. Poi andò meglio. La seconda finii decimo, la terza e la quarta arrivai secondo. Per gareggiare avevo falsificato il tesserino: bisognava avere – minimo – sedici anni, io ne avevo quindici”.

 

In quel Giro del 1960 Bruni si concesse il bis: “A Trieste. Nel finale ci provò Baldini: aveva la sparata, guadagnò una cinquantina di metri, ma fu ripreso all’ultimo chilometro. Stavolta uscii a 150 metri dall’arrivo e vinsi su Alessandro Fantini, lo stesso Baldini e Van Looy. Primo”. E pensare che Bruni sarebbe arrivato anche ultimo: “Giro d’Italia 1964. Soffrivo le pene dell’inferno per colpa di una clavicola e di una mano fratturate in una caduta alla Parigi-Roubaix. Sergio Zavoli al ‘Processo alla tappa’ mi domandò perché non mi ritirassi. Voglio soffrire così tanto, gli risposi, da non dover rimpiangere più il Giro, il ciclismo e la bicicletta”. Missione compiuta.

 

Bruni non era il tipo da arrendersi in corsa, non lo fa neppure adesso nella vita: “Va come deve andare a un novantenne”.

  


 

Al Giro d’Italia del 1931, il 10 maggio, debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate tutte le puntate.

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