Dopo il 3-0 alla Juventus

Questo Milan gioca bene, pensa bene, comunica bene

Troppo giovane per vincere lo scudetto in un campionato di vecchi, sta però tornando ai vecchi costumi

Giuseppe Pastore

Nessun miracolo, molti meriti. A partire da Pioli, che ha saputo costruire una squadra in cui il gruppo è molto più forte della somma delle sue individualità

No, alla fine il Milan non è stato da scudetto. Non poteva esserlo fino alla fine, non con la terza età media più giovane d'Europa dopo il Nizza e lo Stoccarda, soprattutto non nel campionato dove l'anzianità è un valore e “l'esperienza” è un Sacro Graal inafferrabile dalle parole, in cui il manuale dell'Allenatore di Successo prevede a un certo punto la richiesta alla società di una svolta gerontocratica: vedi Conte, che in estate si è fatto comprare i Kolarov e i Vidal, salvo panchinarli cinicamente al primo segnale che trattavasi di due ferrivecchi. Lo stesso errore l'aveva commesso a gennaio il Milan, irretito dalle sirene dell'altissima classifica: l'acquisto di Mandzukic, in nome della ricerca di una non meglio precisata cattiveria, è stato l'unico qui pro quo strategico di una stagione dritta come un fuso seppure vissuta in apnea, che ha da poco tagliato il traguardo delle 50 partite da metà settembre, con Pioli che in molte di queste ha dovuto arrabattarsi con i Saelemaekers, i Dalot, i Kalulu, i Meité, i Krunic...

Sì, alla fine il Milan sta dimostrando di valere tutto il resto. Ripetiamo il dato iniziale perché merita considerazione e grande stima, nel paese dove il calcio e la politica si somigliano fino a sovrapporsi, e dettano legge gli Ibrahimovic, i Ribery, i Palacio e tutti gli altri vecchi fuoriclasse con l'età dei datteri. La terza età media più giovane dei top 5 campionati europei è della squadra che al momento divide il secondo posto della serie A con l'Atalanta Meccanica: celebrata con il sacco di Torino dove il migliore in campo è stato Brahim Diaz, un classe 1999 che prima di essere girato in prestito al Milan aveva giocato cinque partite di campionato da titolare in quattro anni tra Manchester City e Real Madrid, e che tuttavia ha fatto sembrare dei vecchi arnesi – come quelle app che invecchiano le foto con un colpo di polpastrello – i cascami della gloriosa BBC che fu: Buffon avvilito in panchina, Bonucci ridotto a invocare falli di mano inesistenti da bordo campo come una spia collaborazionista, Chiellini ansimante e ormai più ingobbito che gobbo, al terzo fallo da rigore in dodici partite nel 2021. Delle nequizie della Juventus 2020-21 abbiamo scritto fin troppo, e del resto temiamo che ancora scriveremo in futuro: ma ora bisogna pur celebrare una squadra che gioca bene, che pensa bene, che comunica bene – quando altre, come Lazio e Roma, viaggiano sempre con la spia accesa dell'isteria permanente; e altre ancora, come il Napoli, hanno furbamente tolto di mezzo l'allenatore in rottura prolungata con il presidente, negandolo ai giornalisti da due mesi. Il Milan invece è sempre rimasto ben oltre la soglia della dignità, affrontando le inevitabili spine della primavera – il viluppo Donnarumma, la soap opera Calhanoglu, il laborioso trattamento del quasi quarantenne Ibrahimovic – accettando di essere un po' martello un po' incudine, senza nascondere i propri affanni, ammettendo la figuraccia della Superlega senza infingimenti come ha fatto Maldini, che ha proclamato in tv di non saperne niente e volerne sapere ancora meno: comunque, sempre meglio che affondarci con tutte le scarpe.

Nella storia del Milan ritornano ciclicamente questi torrenziali 0-3 in casa Juve, anche se curiosamente non hanno mai coinciso con alcun trofeo: non il Milan del Gre-No-Li nel 1952-53, non il declinante Milan di Sacchi nel 1991, non l'effervescente ma effimero Milan di Leonardo nel 2010, non questo Milan che ancora non si capisce cosa sarà, ma s'intuisce cosa vuole diventare. In alcuni dettagli, specialmente fuori dal campo, pare annunciare il ritorno dei vecchi costumi: negli ultimi sette giorni, dopo tante vigilie di derby e Juve-Milan passate a proclamare pomposamente vittorie il giorno dopo mai arrivate, si è chiuso a testuggine, aiutato dal vento mediatico che spirava altrove, ora su Mourinho ora sulla Superlega, comunque lontano da Milanello. Al momento di presentare la sfida a tv e giornali, ha mandato avanti lo spigoloso Kjaer, capitano in pectore. Parabola simbolica, la sua: arrivato con l'etichetta del reietto, scartato dall'esigente Gasperini, rivalutato da Pioli in inverno, riscattato a poco più di 2 milioni a giugno, è uno dei tre migliori centrali della serie A e simbolo tecnico e spirituale di una squadra in cui il gruppo è molto più forte della somma delle sue individualità. L'ordine e la lucidità con cui nel secondo tempo ha occupato la metà campo di una Juventus stile 8 settembre sgombra il campo da qualsiasi tentazione di gridare al miracolo. Col senno di poi, era più un miracolo credere di cavare qualcosa di buono da un allenatore che non aveva mai allenato per un minuto nella sua vita precedente: sugli sguardi in tralice di Elkann ad Agnelli, separati da uno spazio molto più ampio del metaforico seggiolino del distanziamento sociale allo Stadium, si potrebbe disegnare una specie di sconcertato fumetto: “Com'è che siamo diventati così?”. Il Milan si fa la stessa domanda, ma col sorriso sulle labbra: e la risposta gli sembra di conoscerla.

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