Alfonsina Strada sui rulli in un'immagine pubblicitaria d'epoca (foto Wikimedia Commons) 

Il Foglio sportivo

Alfonsina Strada, ultima ma prima al Giro d'Italia

Giorgia Mecca

Alfonsina Morini a dieci anni non aveva mai visto niente di più bello di una bici. Fu l'unica donna a correre la corsa rosa maschile. Il libro di Simona Baldelli

"È bene o male che le nostre giovani donne, future spose e future madri, facciano dello sport?”. Agli inizi del Novecento la domanda era lecita e la risposta scontata. Le atlete erano chiamate donnacce, virago, poco di buono; a proposito delle biciclette i preti ammonivano le peccatrici: “Se non smettete di usarle, finirete all’inferno”.  Eppure, Alfonsina Morini a dieci anni non aveva mai visto niente di più bello di una bici. Era nata nel 1891 a Fossamarcia, un paese in provincia di Bologna dal destino scritto nel nome, e della sua infanzia non aveva niente di bello da ricordare, solo la voglia di fuggire per sempre e la scoperta di pedali e manubri. La sua storia, che attraversa la prima metà del Ventesimo secolo e due guerre mondiali, è stata raccontata dalla scrittrice Simona Baldelli nel libro “Alfonsina e la strada”, appena pubblicato da Sellerio in occasione dell’edizione numero 104 del Giro d’Italia.

 

 

Aveva talento, Alfonsina. Nel 1904 a tredici anni si era già donne e lei lavorava come sartina, ma appena poteva ritagliarsi qualche ora correva alla pista della Montagnola, a Bologna, a vedere i campioni dell’epoca, Alfonso Calzolari ed Ezio Corlaita. “Sei una femmina”, le facevano notare e lei, che non sapeva bene cosa avrebbe dovuto ribattere, alzava le spalle, proprio così, una femmina. Voleva gareggiare, era veloce, era ribelle. “Con la bicicletta comprata con il lavoro di sarta, le era cresciuta la smania delle corse e la voglia di diventare una corridora di mestiere”. Per riuscirci doveva prima scappare dal posto in cui era nata e in cui la consideravano una matta, un diavolo in gonnella. Un giorno domanda a sua madre “Come faccio ad andarmene?”. Si sente rispondere: “Come facciamo tutte: ti sposi”. Alfonsina Morini coniugata Strada, nel corso della sua carriera ricevette in regalo da Gabriele D’Annunzio una stella d’oro, rifiutò di ricevere un’onorificenza da parte di Mussolini, a San Pietroburgo venne lodata dalla zarina Alessandra che le appuntò una medaglia al petto. Era il 1909 e lei due anni prima era diventata la migliore ciclista italiana, di lì a poco avrebbe battuto il record di velocità femminile pedalando a 37,192 chilometri orari. Ma non le bastava. “Ormai era diventato un pensiero fisso. Voleva verificare se le donne valessero meno degli uomini”, scrive Simona Baldelli in questo libro che parte dal ciclismo per raccontare la società italiana dell’epoca, Caporetto, le rivolte per il grano, la miseria e le mani sporche dei contadini, le schiene curve delle donne che falciano il grano, la fatica senza ricompense, una bicicletta per pedalare via. A trentatré anni Alfonsina vuole gareggiare come gli uomini, contro gli uomini. È il marzo del 1924 quando si presenta alla sede della Gazzetta dello Sport per dire al direttore: “Ho letto l’articolo sul Giro. Voglio iscrivermi”. Quell’anno la corsa in rosa rischiava di avere poche attrattive vista la diserzione di Girardengo, Bottecchia e altri illustri colleghi, ma una donna ai nastri di partenza avrebbe fatto notizia. La iscrissero, con il numero 72 sulla pettorina, il cognome Strada del marito e un nome sempre storpiato dal maschilismo e dalla disabitudine, Alfonso o Alfonsin. Alla donna non interessava, per lei l’importante era salire in sella e non fermarsi mai: più di tremila chilometri, dodici tappe, l’Italia dal nord al sud. La prendono in giro, lei pedala, i suoi colleghi quando la incontrano e la vedono in difficoltà le dicono “arrangiati”, lei pedala, arriva ultima, pedala ancora, dopo tre tappe potrebbe ritirarsi con l’onore delle armi e la consapevolezza di aver compiuto un’impresa. Non ci pensa nemmeno, continua fino a quando non taglia il traguardo. Prima, pur essendo ultima. “La fatica. Nessuno ci pensa, alla fatica. Ci sono occhi solo per medaglie e trofei; o le fantasie sui soldi guadagnati, sempre troppo pochi, che vanno via in un lampo. Si discute di applausi, titoli sui giornali, ma si dimentica la fatica. E la solitudine”.

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