Calcio globale

L'operazione Superlega non era solo questione di debiti

Quello proposto dai dodici club "ribelli" è un modello che potrebbe valorizzare gli investimenti delle grandi

 Alessandro F. Giudice

Si può invocare la linea dura, accusare di mala gestio le grandi, cacciare gli avidi mercanti dal tempio del calcio romantico. Ma sarà fondamentale, per tutti, che qualcuno li sostituisca

L’operazione Superlega offre una lettura immediata: 12 club, schiacciati dai debiti, trovano il modo di salvare bilanci traballanti grazie a una banca USA, garantita dalla prospettiva di un torneo riservato nel quale spartirsi le risorse tra pochi eletti. Come tutte le letture semplici, non coglie nel segno perché il debito è una motivazione ma non l’unica e forse neppure la principale. Per capire la Superlega, serve osservare che il modello di business dei club contiene almeno quattro aziende, ben distinte, nello stesso veicolo giuridico.

 

Il core business produce ricavi tipici (match day, diritti tv, sponsor, merchandising) contro costi ricorrenti, soprattutto per i costi delle rose. Poi c’è il player trading: produrre utili (le plusvalenze) sul mercato dei giocatori. Collaterale a questo è la formazione di giovani calciatori, dalle scuole calcio alle giovanili, fino a portarli in prima squadra trasformandone il capitale, da umano a finanziario. Infine, il business alimentato dalla tecnologia digitale (applicazioni e social network) attraverso lo smartphone, canale ormai preferito dai millennial al televisore, con cui creare vaste comunità virtuali di tifosi. A essi il club vende contenuti mirati, da un lato, a cementare l’appartenenza di persone sparse in ogni angolo del mondo. Dall’altro, a profilarle coinvolgendole in un percorso di identificazione nel lifestyle costruito attorno al fascino della squadra. La comunicazione a due vie dell’economia digitale consente di trasferire informazioni sui gusti dei tifosi-consumatori ad aziende (partner commerciali) di settori e paesi diversi, pronte a pagare. Più il brand è globale, più robusta è la produzione di ricavi commerciali. Ma cosa c’entra con la Superlega e come ci si arriva?

 

Le top (Real, Barcellona, United, Liverpool, Bayern) hanno globalizzato l’immagine nell’ultimo decennio mentre le italiane restavano indietro, frenate dal modello – ormai morente – del miliardario tifoso. L’unica con un brand già allora conosciuto all’estero, il Milan, perdeva il treno dell’innovazione mentre la Juve ne imboccava per prima la strada, lanciando però l’inseguimento alla testa del gruppo da distanza siderale. 


L’esigenza dei super club di difendere il vantaggio competitivo dall’attacco di nuovi concorrenti trovò una sponda nell’Uefa con il Fair Play Finanziario e il dogma del pareggio di bilancio. Coprire i costi coi ricavi non è per forza la ricetta della costruzione di valore finanziario ma l’Uefa si fece custode del tempio, alzando una barriera allo sbarco di miliardari arabi, russi e cinesi che compravano club per investirvi centinaia di milioni e trasformarli in seri concorrenti o all’interesse di investitori finanziari ai quali limitava la libertà di investire prima di raccogliere, come sarebbe normale. 

 

Nella furia di proteggere il calcio dagli investitori, più che dai concorrenti, Il FFP ha però fallito perché l’Uefa lo brandiva sui deboli mentre rispettava i forti, non impedendo così al Chelsea di Abramovic, al PSG del Qatar e al City dello sceicco Mansour, per esempio, di invitarsi alla festa. Paradossale l’idea di conciliare il mercato con il protezionismo perché escludere Neymar, Mbappé, De Bruyne dalla Champions avrebbe danneggiato i concorrenti e gli stessi custodi. Il Covid ha fatto il resto, dimostrando impossibile imporre a un’industry il pareggio del bilancio quando i ricavi evaporano e contratti blindati ingessano i costi. Insieme al FFP salta il patto, non scritto, con cui l’Uefa garantiva i top club tenendoli nel recinto dell’associazione e frenandone le pulsioni scissioniste. Salta perché i club hanno brand da valorizzare, con investimenti che oggi possono fruttare solo concentrando l’attenzione degli spettatori e intercettandone il valore. Se un calciatore gioca 50 partite, la sua produttività aumenta allargando il pubblico che le guarda e Liverpool-Real Madrid attirerà sempre più di un match tra provinciali. Ma l’Uefa è organizzazione politica, con interessi diametralmente opposti. Non vuole distillare, ma diluire. Accontentare i grandi ma, intanto, distribuire ai piccoli costituisce la base del suo consenso, di cui la nuova Champions a 36 squadre è l’emblema. Le grandi vogliono più big match (quindi più ricavi), la Uefa propone più partite con le piccole (quindi più costi, meno ricavi): su queste basi, un patto non può reggere.

 

La Superlega è un modello che può valorizzare gli investimenti delle grandi. Non è detto sia quello definitivo ma oggi, piaccia o meno, risponde a queste esigenze favorendo anche una specializzazione a questo punto inevitabile: da un lato, chi è più forte nella produzione di ricavi su scala planetaria avendo brand e bacino di tifosi-clienti. Dall’altra, chi fa soldi vendendo ai primi l’ingrediente principale dello spettacolo: il talento dei calciatori. Per anni, l’equivoco tra i due ruoli ha tenuto alcuni nel guado: la Juventus ambiva a entrare nella élite con investimenti clamorosi (Ronaldo docet) senza il bacino di mercato dei super club e dovendo perciò inventarsi un modello ibrido che puntava a coprire le perdite del core business con enormi plusvalenze (da Pogba in giù). Da domani, il modello ibrido avrà meno spazio. La stessa Atalanta, presa a emblema dello scempio che la Superlega fa del merito sportivo delle piccole, ha venduto negli anni a Milan-Inter-Juve 12 giocatori (200 milioni complessivi) e al Manchester United un diciottenne con 4 presenze (un’operazione da 40 milioni) finanziando così un modello assai virtuoso ma che richiede un mercato di sbocco. Cosa permette allo United di pagare 40 milioni all’Atalanta per un diciottenne? La capacità di generare ricavi su scala mondiale, vendere magliette, reclutare sponsor, valorizzare diritti televisivi, sfruttare una community planetaria. Capacità che l’Atalanta (bellissima sul campo) non può avere.
Si può quindi invocare la linea dura, accusare di mala gestio le grandi, cacciare gli avidi mercanti dal tempio del calcio romantico. Ma sarà fondamentale, per tutti, che qualcuno li sostituisca.

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