“Il calcio è semplice” e altre furbe banalità

Il grande bluff di Max Allegri

Pronto a tornare in panchina, anche ieri ha dimostrato che è un uomo intelligente. E lo dimostrerà ancora.

Giuseppe Pastore

Ospite a Sky Sport, l’ex allenatore di Milan e Juve rompe un silenzio di due anni. Diverte, racconta aneddoti, non affonda mai la lama e non dice quasi mai quello che pensa davvero ma quello che sa che si aspettano da lui

Massimiliano Allegri è sempre stato un uomo fortunato. La notizia della sua ospitata al Club di Sky Sport, seconda serata della domenica, era già stata annunciata da giorni, ma da allettante è diventata imperdibile dopo l'affondamento della Juventus perpetrato dal Benevento: due squadre allenate da due giocatori con cui Allegri aveva vinto il suo primo scudetto in carriera, nel 2011 con il Milan. Come si suol dire, l'assenza è una più acuta presenza: e il mestiere dell'allenatore a riposo, fermo ai box promettendo o minacciando di ripartire presto, si presta all'immagine in maniera particolare. Chi ha paura di Massimiliano Allegri? E chi ne ha voglia? E nostalgia?

  

Allegri ha 53 anni, nel pieno di una carriera bruscamente ferma al passaggio a livello come Benigni e Troisi prima di svoltare per Frittole. Capello semi-rasato, senza quella chioma ingovernabile che aveva suscitato le primissime ironie di Berlusconi a Milanello, fisico sempre più asciutto, camicia slim fit, sorriso a 32 denti che nei momenti più sardonici sconfina in una risata da Joker che ti fa dubitare della morbidezza della maggior parte delle sue risposte ad personam, sull'Inter, sulla Juventus, su Pirlo “che sta facendo un bel lavoro”. Allegri che evidentemente tiene famiglia e non vuol chiudersi alcuna porta, bluffa, allude senza affondare la lama, indulge nell'aneddoto da osteria del pesce in cui, come tutti i grandi aneddotisti, nasconde sempre la perla di verità. Il momento dell'illuminazione giunge intorno a mezzanotte e quaranta, quando racconta di come vietò il retropassaggio al portiere ai giocatori dopo la sua prima di campionato con la Juventus, contro il Chievo, in cui risultava che Buffon avesse tenuto palla per un minuto e 39 secondi. Non spiega perché, non ce n'è alcun bisogno, le risate ammiccanti dei presenti tolgono i dubbi residui. Ve lo sto raccontando – pensa Allegri, in quel momento dominatore del tavolo da poker – perché avete bisogno che io ve lo racconti.

  

Personalmente la narrazione che Allegri si è cucito addosso più o meno volontariamente in questi due anni di stop non fa né caldo né freddo. Già “il calcio è molto semplice” è nulla più che una banalità, allo stesso modo in cui lo sono frasi come “Il Sassuolo non perde mai” (e da allora il Sassuolo ha perso spesso). Allegri non ha la foggia del filosofo: la sua oratoria è incespicante e il pesante accento livornese, sfoderato con compiacimento, è più adatto a un tavolo da biliardo che alla platea di un congresso. Ma, a differenza di molti suoi colleghi, non dà mai la sensazione di volerti vendere qualcosa: ti vuole solo spiegare come la vede lui, e se non sei d'accordo amici come prima. Poi, siccome è uomo di rara furbizia, è evidente che si diverte un mondo a veder andare in bestia i suoi oppositori con frasi come “Non so nemmeno io come si fa a fare l'allenatore”. Il gioco è il suo vizio: non solo quello propriamente detto, da ippodromo o da bisca, ma il gioco della seduzione. Il trucco c'è ma non si vede. Come ha fatto quest'uomo che snocciola apparenti banalità stile Peter Sellers in Oltre il giardino, ad aver vinto sei scudetti di cui cinque consecutivi, e quasi tutti con ampio distacco sulla seconda?

 

L'Allegri vero è quello, con aria stizzita, che una volta in conferenza stampa indicò un pallone bianco per spiegare che colorito avevano le facce dei giocatori della Juve ogni volta che giocavano in Champions, prima che arrivasse lui a riportare la calma. L'Allegri del celeberrimo monologo del “corto muso”, quando punto nell'orgoglio spiegò che “'un conta vince di cento”. Quello del Club è un Allegri che recita, sa su quali tasti spingere, non immerge il dito nella piaga della costruzione dal basso come reclamerebbero tanti risultatisti orfani del loro vate. Sembra quasi un Benigni alle prese con la Divina Commedia o la Costituzione, esagera nel buonismo dell'esaltazione dei grandi giocatori, e Nesta e Chiellini e Ibra e Robinho e Ronaldinho, glissando sul fatto che Ronaldinho l'ha mandato via lui dopo tre mesi. Indossa il saio dell'umiltà, “l'allenatore più bravo è quello che fa meno danni, l'allenatore è bravo quando vince”. È semplice. E lui vince, sei scudetti, cinque consecutivi.

 

Allegri è purissimo distillato di furbizia e di arte di arrangiarsi, in panchina come in un talk-show: fa finta che il suo pensiero vada dove la partita o il dibattito esigono che fluisca, ma in realtà l'ha deciso lui. Per questo motivo è il miglior allenatore italiano da campo, vive il suo mestiere come un uomo di mare, di barca a vela e di gommone, con improvvisazioni e sostituzioni geniali che ieri ci sono tornate in mente davanti al mediocre spettacolo di Andrea Pirlo che ha schierato dall'inizio tutti e quattro i giocatori offensivi di cui disponeva, pensando ingenuamente che sarebbero bastati a chiudere la partita subito: e quando invece il Benevento è passato in vantaggio a metà ripresa, non aveva nessuno fresco da mettere dentro per cambiare la rotta della partita. Allegri lo ha ripetuto spesso che alle brutte era sempre meglio tenersi un Dybala o un Pogba in panchina, perché a calcio si gioca in quattordici (ora in sedici). Nella melassa che spandeva a piene mani sul tavolo del Club, per nulla ostacolato dai presenti (solo Sandro Piccinini ha provato all'inizio a estorcergli qualche risposta scomoda, ma ha mollato l'osso molto presto), ha infilato di soppiatto alcune piccole gemme di verità, peraltro per nulla inedite: l'allenatore vive di sensazioni e dev'essere bravo nella gestione dell'imprevisto. È l'antitesi dello studio a monte, della teoria che porta ad altra teoria. Gli chiedi del “suo calcio” e svia la domanda, ti risponde parlando di calciatori, tecnica di base, della velocità dei passaggi delle grandi stelle delle squadre straniere, dell'importanza di darsi bene il pallone, di quando Messi sforna o riceve passaggi a cento all'ora e quando tu ci metti il piede, la palla è già passata. Anestetizza il dibattito e forse delude chi già lo immaginava sparare a palle incatenate contro Agnelli e Paratici: Allegri ti dice solo che è tutto semplice, che “il calcio è un vestito grigio, il classico che non passa mai di moda”, che ha avuto “culo” a inventarsi il 4-2-3-1 con cui nel 2017 portò la Juve fino a Cardiff. Semmai sono bravi gli altri, ma fino a un certo punto: “Nemmeno Van Gaal è riuscito a cambiare il DNA del Manchester United”. Quale altro allenatore di serie A avrebbe il fegato di sminuire così tanto il proprio lavoro? E Allegri invece in serie A ha vinto sei scudetti, cinque consecutivi.

 

Ma non è così. Allegri non lo pensa davvero. Da toscano machiavellico, sa che è la parte che al momento gli tocca recitare per tornare in pista: innocuo nel particolare, splendido nel generale. È probabile che ultimamente, nella noia dei lockdown trascorsi a guardare un Benevento-Fiorentina qualunque, si sia sentito un po' ignorato da un calcio che tende a ragionare per massimi sistemi e confina i situazionisti alla Max nella riserva indiana della medio-bassa classifica, dove un Ranieri o un Ballardini servono solo per tirare qualche squadra fuori dai guai. Non fidatevi: si finge mansueto, ma quando credi di averlo al guinzaglio ti infilza col guizzo inaccessibile a tutti gli altri. Soprattutto in una cosa, però, è sincero: l'elogio della semplicità non si oppone alla complessità, ma alla complicazione. Anche ieri Massimiliano Allegri ha dimostrato che è un uomo intelligente. E lo dimostrerà ancora.