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Il Foglio sportivo

A cosa pensa Paulo Fonseca? Nella testa di un mister che resiste

Giuseppe Pastore

Circondato da polemiche e isteria, l’allenatore della Roma fa il distaccato e prova a lasciare il segno nella Capitale

"Dove lo festeggia il Capodanno Toninho Cerezo?”: la domanda posta da Luca a Serenella sulle scale di Villa Covelli è questione nodale e valore fondante del romanismo dell’ultimo mezzo secolo (“Secondo me dorme, perché è un professionista”). Un interrogativo che risale al 1983, non un anno qualunque per il popolo giallorosso. A occhio il 2021 della Roma non dovrebbe andare allo stesso modo, eppure l’accento portoghese, la bella presenza e il carisma del suo allenatore incoraggiano una domanda simile: immerso nel bailamme quotidiano di suoni, anzi rumori sguaiati, sgradevoli, cacofonici, schizofrenici che lo circondano, a cosa pensa tutto il tempo Paulo Fonseca? Se consideriamo “dei nostri” Sinisa Mihajlovic e Ivan Juric, in Italia da una vita, Paulo Fonseca è l’unico tecnico straniero della Serie A. È l’allenatore della Roma da venti mesi, durata e resistenza non trascurabili, se ricopri un posto di lavoro che per serenità e leggerezza possiamo paragonare a Bruce Willis che ha trenta secondi per decidere se tagliare il filo giallo o il filo rosso – solo che Fonseca deve farlo tutti i giorni.

  

In venti mesi non sempre ha tagliato il filo giusto, eppure è sempre sopravvissuto: a un cambio di proprietà e poi di dirigenza, a un cambio di fascia di capitano, a un derby perso malissimo, a vere o presunte sommosse interne allo spogliatoio, ad almeno due brutti scivoloni regolamentari che hanno gettato discredito sul nome del club, a pomeriggi come quello dello scorso 23 gennaio contro lo Spezia che sembravano perfetti per un bel funerale in diretta, e invece al 92’ Lorenzo Pellegrini 4-3.

  

Paulo Fonseca è un personaggio scritto molto bene, da manuale delle sceneggiature, un Don Draper della categoria (e del resto quale posto migliore per lavorare del leggendario Ambiente Romano, così pullulante di mad men). Siamo oltre la metà della seconda stagione e ancora si porta dietro parecchie domande irrisolte. Come fa a non spettinarsi mai in un ambiente che ha trascinato alle soglie dell’esaurimento nervoso colleghi di spessore come Capello, Spalletti, Luis Enrique o Di Francesco? Come fa a mantenere la sua chioma perfettamente corvina, in un contesto umano e professionale dove solitamente i capelli diventano bianchi già a metà girone d’andata? Il lavoro lo sottopone ad almeno quattro interviste o conferenze alla settimana: come fa a mantenersi in equilibrio verbale e lessicale pur dovendo cimentarsi con una lingua straniera? Quell’italiano ancora un po’ incerto è solo una posa per sviare domande scomode o semplicemente noiose, che non gli interessano, che fanno solo perdere tempo (“Roma ti fa perdere un sacco di tempo”, diceva Servillo-Jep Gambardella ne La grande bellezza)? In fondo Mourinho, nume tutelare delle due ultime generazioni di allenatori portoghesi, era arrivato a Milano già “studiato”. Non è che Fonseca è un sottile paraculo alla Rudi Garcia o, per alzare l’asticella, alla Liedholm? Non ci stupiremmo: per sopravvivere a Roma, è una qualità più importante della costruzione dal basso.

  

Quel che è sotto gli occhi di tutti, e non si può negare, è la qualità della Roma, almeno contro la medio-bassa borghesia del calcio italiano. Un gioco di possesso che però accelera di colpo in una verticalità bruciante, piacevole anche alla vista, come per esempio nell’azione del primo gol alla Fiorentina, da Mancini a Spinazzola (due giocatori simbolo della Roma fonsechiana). Sembra superiore alla somma dei singoli interpreti: un campione come Mkhitaryan sembra giovarsi del gioco della Roma, e non viceversa. La Roma è bella e in questo senso Fonseca è romanismo puro, così come romanismo puro è la statistica ineffabile che – se non riuscirà a invertirla – gli riserverà la dannazione eterna: tre punti in 8 partite contro le prime sette della classifica, regolare ammissione di cilindrata non all’altezza, di inferiorità fisica e tattica subita sempre in modo diverso. La Juventus si è schierata in maniera ultra-pragmatica con due linee molto basse per ridurre la manovra della Roma alla lunga e vana ricerca di un parcheggio, come quando si va (si andava) il venerdì sera fuori a cena a Trastevere. Il Milan ha fatto tutto il contrario, azzannando la lupa alla giugulare senza preliminari, una parte del calcio e della vita che è insita in una certa cultura latina e portoghese. Andando a ritroso nelle disfatte precedenti, la Lazio ha dominato il derby in quella maniera marpiona e sgamata che nelle sue notti migliori è l’espressione massima del calcio all’italiana, mentre l’Atalanta ha suonato per 45 minuti un heavy metal dal volume e numero di bpm insopportabili per qualunque altra squadra italiana. E francamente si ha la sgradevole sensazione che la Roma continuerà a cadere, magari per altre vie ancora, ogni volta che il campionato o l’Europa League le metteranno sulla strada una squadra di pari livello, perché perdere aiuta a perdere. Fonseca però non se ne cura.

 

In letteratura la figura dello Straniero, per filosofia o semplice passaporto, è una delle più ricche e affascinanti: dal western alla fantascienza, da Camus a Clint Eastwood. Figurarsi nella provincia sonnacchiosa che è il nostro calcio, così tartufesco che persino un concetto da scuola elementare come “giocare bene” si trasforma in un’etichetta velenosa, para-zemaniana, perché per esempio nell’allucinante primo quarto d’ora contro il Milan si sono divertiti soprattutto gli avversari. Nel brodo di giuggiole della critica “belgiochista” rischia ogni tanto d’annegare la Roma fonsechiana, per esempio negli ostentati elogi a ninnoli talentuosi come Roger Ibañez o Gonzalo Villar finito divorato pochi giorni fa dalla pressione e dalla fisicità del Milan. Ma questa è la sua natura, impossibile da cambiare “in un tempo piccolo”,  nel senso della citazione di Califano e delle ristrettezze di questa stagione-frullatore che costringe molte squadre a settimanali massacri di partita+recupero+rifinitura+partita, senza l’ossigeno per studiare qualcosa di diverso. Fonseca però non se ne cura.

 

Sordo a ogni impulso negativo proveniente da tv radio giornali e social, il distacco di Fonseca verso la permanente isteria del mondo fuori sembra provenire da un’altra epoca e da un altro luogo, per esempio dal Sassuolo, non dalla grande città. È un linguaggio del corpo sicuramente ammirevole almeno fino a quando non viene portato alle estreme conseguenze (riassumibili nel quadretto, diventato meme, di lui che assiste un po’ confuso al richiamo di Pellegrini durante Roma-Spezia di Coppa Italia: “È il sesto cambio!”). Tornando a Don Draper – che, per chi non lo conoscesse, è il personaggio principale di una delle serie tv meglio scritte di sempre, appunto Mad Men - con Fonseca assistiamo all’avvincente convivenza di due nature che nei cliché del calcio farebbero a cazzotti. Un uomo di bell’aspetto, attento al look e presente sui social, impeccabile in divisa proprio mentre il lockdown e lo smart-working stanno spingendo il calcio e noi tutti a riabbracciare il vecchio look in tuta, perfettamente calato nella realtà contemporanea che impone anche un certo grado di mondanità. Ma anche un professionista che lotta con testardaggine per imporre i suoi principi di calcio ottimista e brillante che meriterebbe di esistere in tempi migliori rispetto a quelli attuali, così cinici e cupi. Vogliate bene a Fonseca anche se arriverà quinto o sesto o addirittura esonerato, come sembrava pressoché certo in almeno due momenti di questa stagione. Non è il miglior allenatore di tutti i tempi e nemmeno della storia del suo attuale club, ma si sta ostinando a lasciare tracce silenziose del suo passaggio in un calcio e in una città dove i ricordi positivi scompaiono con velocità stupefacente così come le buone intenzioni, specialmente quando non vengono urlate, travolte dal rumore del sospetto, dall’invidia e dal disincanto: lo testimonia anche la farsa-stadio che nelle scorse settimane ha svelato tutta la sua natura farlocca.

   

Anche Fonseca sparirà dalle cronache locali come il famigerato progetto di Tor di Valle, fregato pure lui dal contropiede come tanti suoi predecessori su quella panchina? O dopo essere sopravvissuto almeno sei volte in due anni ai rintocchi delle campane a morto, piazzerà anche la settima zampata, magari arrivando a sorpresa fino a Danzica, nel giardino europeo dove la Roma potrebbe finalmente mostrare sé stessa senza dover controllare se dietro ogni angolo ci sono delle tagliole per terra? La Roma di Fonseca ha una bella trama, ve l’abbiamo detto: dal finale apertissimo. Tutte le strade portano a Roma, ma è anche vero che this charming man, nato in Mozambico e cresciuto in Portogallo c’è arrivato passando dall’Ucraina. I giri larghi non lo spaventano, anzi: di solito la vista è meravigliosa.

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