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Il Foglio sportivo

Il rugby è morto, lunga vita al rugby

Michele Dalai

Le idee di Marzio Innocenti per ridare vita a uno sport che in Italia non funziona più 

Non fosse così oscena e sconveniente di questi tempi, la metafora del rugby italiano come grande malato funzionerebbe alla perfezione, ancora e sempre. Dalla palla ovale arrivano solo cattive notizie, come quella della Nazionale che incassa la ventottesima sconfitta di fila nel Torneo delle Sei Nazioni e i tifosi delle altre cinque squadre che iniziano a chiedersi cosa ci faccia l’Italia lì. Poi ci sono i campionati in affanno, la base che si assottiglia e l’impossibilità tecnica di stare vicini, uniti, fare comunità. Tutte brutture che minano dalle fondamenta la passione per quello sport che solo un decennio fa sembrava in ascesa perpetua, una lunga e felice gita nel cuore degli italiani. Non bastassero lo sconforto per la catastrofe sportiva e l’angoscia per l’assenza forzata da terzi tempi e riti collettivi, ecco in arrivo anche le elezioni federali, quella formula magica che trasforma lo sport di tutti in una complicata liturgia per iniziati, un balletto di voti, alleanze e tradimenti dell’ultim’ora che decideranno le sorti del rugby italiano per i prossimi quattro anni. Si vota tra un mese, con un anno di ritardo a causa del congelamento di ogni cambiamento istituzionale. La composizione dei votanti è la stessa di cinque anni fa: il 70 per cento spetta ai club, il 20 ai giocatori e il 10 ai tecnici.

   

Nonostante una forte volontà di cercare il terzo mandato e le consuete dichiarazioni di fuoco sugli altri candidati, il Presidente uscente Alfredo Gavazzi pare al momento fuori dai giochi. Accusato spesso  di essere l’unico responsabile del disastro, Gavazzi è stato un uomo solo al comando, troppo solo per gestire le inefficienze di tutta la Federazione, che è cosa diversa da un’azienda. A contendergli la scomoda poltrona di presidente saranno con tutta probabilità due vecchie glorie del rugby azzurro: Paolo Vaccari e Marzio Innocenti. Vaccari vanta una lunga esperienza come consigliere federale ed è espressione di una sostanziale continuità rispetto all’attuale presidente, con cui ha lavorato e cui è stato molto vicino. Marzio Innocenti è un’anomalia del sistema. Nato nel ’58, livornese trapiantato in Veneto, un figlio che si alterna tra la carriera del rugbista e quella del ricercatore universitario, Innocenti è stato capitano della Nazionale per 20 volte su 42 presenze e ora è medico per vocazione e passione. Si è candidato e ha perso nel 2016 proprio contro Gavazzi, che lo vede come il fumo negli occhi. Per dirla come i latini, Innocenti ha una gravitas che spesso mette in difficoltà l’interlocutore, quella serietà quasi malinconica dell’uomo in missione, consapevole che la missione in questo caso sia davvero complessa.

   

Lei è un medico e un uomo di sport, è nella posizione ideale per valutare i danni di quest’anno terribile e le prospettive per il futuro. È davvero ottimista come afferma nei suoi messaggi elettorali? Torneremo a giocare a tifare nello stesso modo?

Sono ottimista sia come medico sia come uomo di sport. Certo non è andato tutto bene, più di 90.000 morti e una situazione drammatica, ma dopo la notte deve arrivare l’alba e la pandemia finirà come sono finite tutte le pandemie. Questa ancor prima perché con la vaccinazione di massa riusciremo rapidamente a sconfiggerla. Ci vorranno ancora dei mesi prima di tornare alla normalità, a tifare e giocare come abbiamo sempre fatto ma ci arriveremo. La cosa importante da dire è che il mondo non sarà più uguale, il mondo post Covid avrà bisogno di tante cose che prima venivano considerate poco importanti e il rugby è lo sport ideale per intercettare questi nuovi bisogni, sia dei ragazzi che delle famiglie. Dobbiamo strutturarci per riuscire a rispondere alle aspettative, cercare un cambio di marcia.

   

Dalle sue dichiarazioni e da quelle di altri candidati esce un quadro davvero desolante della situazione attuale del rugby italiano. Posso chiederle chi glielo fa fare, cosa la spinge a mettere mano a un mondo così complicato?

La situazione non è semplice, mancano i risultati sportivi, abbiamo una situazione economica abbastanza nebulosa e un futuro difficile da pronosticare. Ci sono cose più semplici in cui buttarsi ma questo è il mio sport, questa è la gente che amo e io sono sicuro di poter cambiare la tendenza. Nella vita bisogna fare anche le cose difficili e quelle impossibili, perché restano impossibili solo se non ci si prova. Poi, pensaci: riuscire a risollevare la barca del rugby italiano è una di quelle soddisfazioni che possono valere una vita.

   

Cos’è successo negli ultimi otto anni, perché uno sport che stava conquistando gli italiani e che rappresentava una vera alternativa etica al calcio si è sgonfiato in questo modo?

Si è sbagliato a voler insistere sempre e solamente sul concetto di Alto Livello, dimenticando che il tessuto del rugby italiano sono i club, sono i tanti ragazzi che giocano e che non arriveranno mai alla Nazionale, sono i campionati minori, è anche il campionato nazionale che è stato svilito sempre di più. Non esiste movimento che possa prescindere da una base larga. L’Alto Livello è importante ma è assurdo rinunciare alle proprie radici, abdicare alla propria natura di sport per tutti porta solo disastri.

    

Non crede che aver raccontato a tutto il mondo la storia dei valori, del terzo tempo e dell’amicizia fuori dal campo alla lunga sia diventato mieloso e controproducente?

Continuare a raccontare la storia dei valori come unico patrimonio che abbiamo è stucchevole e noioso. Ma i valori ci sono. Il fatto è che non vanno solo raccontati, ma praticati quotidianamente. Quando eravamo pochi tenevamo molto a quei valori, li insegnavamo e raccontavamo a chi si avvicinava. Ora li abbiamo dimenticati o li sbandieriamo senza professarli, il che è abbastanza insopportabile.

   

Qual è il grande male della Nazionale, che sembra caduta sotto un incantesimo ed è contestata ormai apertamente dai tifosi delle altre squadre del Sei Nazioni?

Il male della Nazionale è che non siamo al livello degli altri e che quindi ci scontriamo sempre con giocatori con competenze superiori alle nostre. Il problema è antico, nel 2000 avremmo dovuto iniziare a costruire un sistema per dare ai giocatori quelle conoscenze. Non lo abbiamo fatto e abbiano pensato prima di affidarci ai giocatori formati in Argentina, poi a quelli di seconda fascia che non trovavano spazio nelle Nazionali dei loro paesi e ora che queste soluzioni si sono rivelate inadeguate ci troviamo disarmati, arranchiamo in mancanza di un sistema. Forse manca il tempo per rimediare. Io spero che ci concedano ancora qualche possibilità, ma bisogna darsi una mossa.

   

Quale degli altri candidati sente più vicino alla sua posizione (se ce n’è uno), e con quale invece ha visioni completamente opposte?

In questo momento vedo candidati con un passato di potere e ruoli apicali nella gestione del rugby italiano ed è del tutto evidente che la mia visione sia molto lontana dalla loro. È buffo sentire che alcuni si presentino come possibile cambiamento. Unico diverso è Giovanni Poggiali, certamente una persona di qualità e che ha un atteggiamento e una postura più vicina alla mia, ma abbiamo progetti lontani che inevitabilmente ci dividono.

  

Quali lezioni arrivano dall’estero, dalle Federazioni europee e da quelle dell’emisfero Sud?

Tante, tantissime ed è difficile elencarle tutte. C’è una cosa che mi piace sottolineare, per tornare a un discorso fatto poco fa: contrariamente a noi loro non si sono mai staccati dalle radici. È il mantra cui tornano quando sono in difficoltà, vedi l’Inghilterra che quando è stata eliminata in casa al primo turno del Mondiale ha scelto di investire molti soldi sul rugby di base. Poi hanno tutti ben chiari i principi del gioco, restano legati al loro modo di interpretare uno sport collettivo di combattimento. Certo, sono professionisti ma adeguano il loro professionismo ai ritmi più antichi del rugby e questo li fa forti. Sanno da dove vengono.

 

Come si sostiene uno sport ‘povero’, che non attira più grandi investimenti pubblicitari?

È terribilmente difficile. Quello a cui puntiamo è diventare il secondo sport di squadra di questo paese per raggiungere di nuovo le leve degli investimenti che ora ci sono negati e ci mancano. Per farlo dobbiamo raggiungere tutto il territorio nazionale ma soprattutto tornare a essere una casa trasparente, nella quale si può investire senza preoccuparsi di strani meccanismi. Siamo un paese di calciofili come l’Argentina, lì i risultati del rugby hanno sedotto molti tifosi del calcio e penso che possa succedere anche da noi. Bisogna solo iniziare a portare dei risultati.

   

Gli ex giocatori sono una risorsa o alla lunga la loro presenza nei ruoli federali crea problemi di competenza?

Sono una risorsa. Molti diventano allenatori, altri cercano una carriera più politica. Il problema sono solo i tempi. In Italia li abbiamo sempre messi troppo presto in posizioni di vertice senza prepararli. Poi li abbiano sempre stroncati accusandoli di incompetenza. Per i ruoli tecnici, come quelli economici e finanziari, serve preparazione. Per i ruoli politici ci vuole pazienza e tempo. Io conosco i problemi delle squadre e della macchina federale perché ho fatto per otto anni il presidente del comitato regionale e sono stato un consigliere federale. Non si possono saltare tutti i gradi intermedi.

   

Il Movimento femminile è una delle grandi promesse elettorali, un tema che si accende ogni 4 anni e che poi tende a essere dimenticato. È nella natura di questo sport, che tende a essere machista per definizione?

Il Movimento femminile ha fatto ottimi risultati e dobbiamo smettere di trattarlo come una categoria protetta. Va seguito dalle strutture tecniche come gli altri, sta entrando nella maturità e ora dobbiamo stimolare le società a costruire i loro settori femminili, per migliorare. Il rugby femminile è rugby, punto e basta. Il machismo nel nostro sport è in via d’estinzione, per fortuna.

   

L’altro grande tormentone elettorale è il Sud. Sedotto e abbandonato troppe volte. Anche in questo caso, da dove si riparte?

Per me il progetto Sud è vitale. Quando ti dicevo che vogliamo diventare il secondo sport di squadra nazionale intendevo proprio che il rugby deve essere giocato e conosciuto in tutta la penisola. Ci sono parti del sud in cui è sparito o non è proprio conosciuto. Servono azioni concrete e non assistenzialismo, serve la formazione di tecnici sul territorio, bisogna investire in strutture che ora mancano. Serve il rinascimento del rugby al Sud. Io voglio essere presente anche fisicamente, per stimolare, rincuorare e incoraggiare. Costruirò una squadra adeguata, fatta di persone disposte a imparare e conoscere prima di intervenire.

  

Come sarà e dove sarà il rugby italiano alla fine del 2025?

Non lo so e non dipende solo da noi. Ma voglio che sia un rugby in cui il ruolo della Federazione sia di supporto alle persone e alle famiglie prima ancora delle squadre. Perché dovremo ricostruire tutto. Io mi pongo obiettivi che son impossibili sono finché non li realizzo, poi diventano normali.

  

Se non ce la facesse mollerebbe? È davvero una questione personale?

Non è una questione personale, ho una vita piena e soddisfacente, un lavoro che amo e che non abbandonerò. Ma sono convinto di farcela e quindi non mi pongo il problema di perdere. Dovesse succedere mollerei e aiuterei qualcun altro, chiunque mostri la mia stessa volontà di battersi per migliorare le cose. Perché bisogna cambiare. Questo è il tempo. Quello che so è che voglio vincere e penso che succederà al primo turno, quello che so è che non farò accordi.

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