Il ritorno del grande antipatico Domenech baciato dalle stelle

Giovanni Battistuzzi

Il tecnico che guidò la Nazionale francese alla finale, poi persa contro l'Italia, dei Mondiali 2006 torna in panchina dopo oltre 10mila giorni. L'obbiettivo è risollevare il Nantes dai bassifondi della classifica. Gli astri sembrano essere dalla sua parte

Non ci fossero stati buoni segnali dalle stelle probabilmente avrebbe rifiutato pure questa chiamata in panchina. Ritornare ad allenare per lui non era necessario. L’aveva detto più volte che “a quasi settant’anni non ci si danna l’anima per il gusto di dannarsi l’anima. Ci vuole una buona ragione, un progetto a cui si crede davvero”. 

  

Che fosse proprio quello offertogli dal Nantes il progetto al quale valesse la pena tornare a dannarsi l’anima sembra strano, soprattutto considerando quanto dichiarato qualche mese fa da Laurent Heffer, a lungo braccio destro dell’ex direttore sportivo del club negli ultimi anni vincenti, Robert Budzynski: “Il Nantes ha un grosso problema: è il terzo anno che tira a campare senza un progetto tecnico. Chiedere a un tecnico di portare al successo calciatori che hanno l’unico pregio di costare poco vuol dire soltanto sperare in un miracolo”. La squadra ora è al sedicesimo posto con un vantaggio di soli tre punti sull'ultima.

  

Se il progetto è quello che è, la buona ragione che ha spinto Raymond Domenech a tornare ad allenare va cercata altrove, negli astri. E questi, almeno per lui, parlano chiaro: nel 2021 le stelle si allineano come da anni non si allineavano, ognuna al posto giusto. E questo allineamento non può portare altro che al successo.

 

Che il tecnico francese creda nell’astrologia è cosa risaputa. Che la consideri una scienza quasi esatta è qualcosa di altrettanto noto in Francia, tanto che sul suo conto, negli anni, si sono sommate una serie di aneddoti che assomigliano a leggende ma che leggende non sono. “Sono i tarocchi a fare la squadra. Se ci si affida alla magia e non allo stato di forma o alle valutazioni tecniche per scegliere chi scende in campo, mi spiegate cosa ci faccio io qui?”, sbottò il preparatore atletico della compagine transalpina ai Mondiali del 2010, Jean-Louis Valentin, dopo aver rassegnato le sue dimissioni durante quella Coppa del Mondo. 

   

Raymond Domenech non commentò allora la sfuriata del suo collaboratore. Non lo fece nemmeno negli anni seguenti. Non era e non è nel suo stile. Lui che si considera più guru che tecnico, più filosofo che allenatore. Lui che è convinto che per vincere non serva la bravura dei singoli ma l’armonia e le buone vibrazioni del gruppo, ha sempre lasciato perdere i cosiddetti “miscredenti”. D’altra parte "il calcio è mistica" e “per vincere c’è bisogno che i giocatori abbiano fede nel loro allenatore. Non fiducia, fede”, disse ai tempi del primo incarico da allenatore della selezione under 21 della Francia.

  

Domenech in Federazione c’era arrivato dopo quattro anni di mancate promozioni in Ligue 1 con il Mulhouse, negli anni Ottanta una delle società più ricche della seconda serie transalpina, e dopo altrettante alla guida del primo Olympique Lione di Jean-Michel Aulas, che riportò nel massimo campionato francese e poi in Europa (Coppa Uefa). A convincere l’allora presidente Jean Fournet-Fayard non furono però i risultati in panchina, fu soprattutto l’idea di “avere a che fare con una persona colta che sapeva vedere lontano. Alla Francia del calcio serviva una rivoluzione intellettuale non solo tecnica”.

  

Gli ottimi risultati dell’under 21 francese sembrarono dar ragione a Fournet-Fayard (due semifinali raggiunte agli Europei nel 1994 e nel 1996 e la finale persa nel 2002). 

  

La fortuna di Domenech fu però soprattutto quella di aver iniziato a raccogliere i frutti della rivoluzione tecnica voluta dal presidente Fernand Sartre: l’introduzione e l’istituzionalizzazione di Clairefontaine e degli altri centri federali che riunivano il meglio della meglio gioventù calcistica francese. Poter schierare in una formazione giovanile tre quarti della squadra che nel 1998 e nel 2000 conquistò il Mondiale e l’Europeo agevolò e non poco il compito del tecnico. 

  

Domenech alla Nazionale maggiore ci arrivò dopo i fallimenti di Roger Lemerre e Jacques Santini rispettivamente ai Mondiali del 2002 e agli Europei del 2004. E anche in quel caso perché “alla Francia calcistica serve una rivoluzione culturale”, disse l’allora presidente Claude Simonet.

  

Una rivoluzione culturale che non ci fu, ma che non tolse a Domenech l’aura di guru, di visionario del calcio.

  

Il perché lo spiegò un membro della Federazione qualche anno dopo alla televisione francese. Per Armand Giglioli “il bilancio di Domenech alla guida della Nazionale fu ampiamente negativo”, nonostante la finale conquistata (e persa contro l’Italia) in Germania nel 2006, “durante la quale la squadra più forte venne battuta da quella meglio organizzata in campo”. Domenech rimase alla guida dei transalpini anche nei successivi Europei e Mondiali, durante i quali la Francia venne eliminata ai gironi. “E ci rimase soprattutto perché inviso ai più. E in Francia se sei antipatico a tanti vuol dire che sei bravo, soprattutto se fai discorsi fumosi che sembrano culturalmente elevati”.

   

Attorno alla sua figura di guru calcistico, di brillante incompreso Domenech ha costruito il suo successo e la sua fama. Stasera a Nantes, nel derby contro il Rennes, torna a sedersi in panchina a oltre diecimila giorni da Francia-Sud Africa 1-2, quello che sembrava dover essere il suo triste saluto al calcio. Lo farà allo stesso modo di allora, con il sorriso malinconico e fiero di chi sa di essere solo contro tutti, di chi sa di essere mal sopportato dai più, di chi di tutto ciò va molto fiero.

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