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Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza

Grazie, calcio

Alessandro Bonan

In balia di questi mesi consumati con addosso l’angoscia di un futuro al buio, il pallone è stata una delle poche consolazioni, apportando un fondamentale contributo sociale ed economico ancora prima che sportivo

Tra le tante scene del maledetto anno che vorremmo dimenticare, ce n’è una parecchio significativa che passa ancora davanti ai nostri occhi e ci inquieta. È la danza dei giocatori di Parma e Spal, prima della loro partita in programma il giorno 8 marzo 2020. Quel momento ha segnato l’inizio della inevitabile caduta del mondo dello sport dentro il vortice drammatico del coronavirus. La partita si doveva giocare alle 12,30, ma i calciatori sulle scale prospicenti agli spogliatoi, pronti a scendere in campo, vengono bloccati dagli arbitri guidati da Pairetto. Attimi di smarrimento, telefonate convulse, in lontananza la mano del governo, con il ministro Spadafora in aperto contrasto con i vertici del calcio. Per Spadafora non si deve giocare. La partita viene rinviata di settantacinque minuti, nei quali si rincorrono le voci e le proposte più disparate. Potremmo identificare quella sospensione come la metafora di ciò che sarebbe successo di lì a poco: l’attesa, la messa in pausa della nostra povera vita.

 

Un periodo lunghissimo nel quale faticosamente e dolorosamente siamo arrivati a oltrepassare l’anno, fino ad arrivare all’oggi dove incominciamo a scrivere di quello che verrà, illuminati dalla speranza riposta in un vaccino. In balia di questi mesi consumati con addosso l’angoscia di un futuro al buio, il calcio è stata una delle poche consolazioni, apportando un fondamentale contributo sociale ed economico ancora prima che sportivo. Pur con qualche sbandata, il sistema calcio ha tenuto, rappresentando addirittura un modello virtuoso di riferimento. Si è continuato a giocare, i contrasti con la politica si sono progressivamente smussati, e dal punto di vista sanitario la bolla ha funzionato. Il calcio ci ha fatto compagnia, e continuerà a farlo anche nei prossimi difficili mesi, gli ultimi, si spera, vissuti in queste ristrettezze fisiche e morali. Durante questi lunghi giorni trascorsi insieme, abbiamo imparato a sostituire i silenzi dello stadio con le voci del nostro cuore. All’inizio ci è sembrato strano, insopportabile. Non è calcio senza la gente, è stato detto con un fondo scontato di verità. Ma piano piano siamo riusciti ad ascoltare una musica di sottofondo, delle note lontane, come provenienti da una dimensione parallela. E anche in quelle note ci abbiamo trovato un briciolo di consolazione e di speranza.

 

Il resto lo hanno fatto i calciatori, artisti del pallone, capaci di restituirci un tempo, un senso, un perché. E di questa loro capacità, importanza, avevamo scritto da subito, come veggenti ciechi, nella nostra debolezza di uomini, conoscendo la forza che possiede questo sport, dove la vita scorre potente nelle vene di chi ne è protagonista, testimone o spettatore. E adesso che il cerchio si sta per chiudere, ora che tutto questo male vissuto sembra ridursi se non proprio scemare, è giusto ricordarlo ancora in maniera semplice ma potente. Grazie calcio, di averci fatto continuare a credere che fuori dalla finestra esistesse ancora un mondo normale.

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