Il Foglio sportivo

Il calcio si sta trasformando, non è detto in peggio

Giuseppe Pastore

La bellezza stimola l’incertezza, la sensazione di una svolta imminente è amplificata dal tremendismo della pandemia, secondo cui “nulla sarà più come prima”. Le cose accadono al triplo della velocità

Dopo una settimana di lockdown del tempo libero, e con il pendolo che batte i lugubri rintocchi verso un vero lockdown prossimo venturo, eccoci di nuovo aggrappati al pallone. Letteralmente dappertutto (da sabato 17 a giovedì 29 ottobre c’è stata almeno una partita di Coppe o di Serie A tutte le sere), estrema àncora di salvezza, diversivo da tv accesa mentre si fa altro e si pensa ad altro, giardino appassito senza tifosi e senza emozioni: ogni opinione è lecita. In queste settimane dove si esce poco la sera compreso quando è festa, qualcuno si riserva un minimo angolino di giornata per ripensare alla propria vita passata da tifoso o appassionato, confrontarla con quest’aspro presente e casomai rinnegare il tempo passato, oppure ardere di speranza e desiderio che “torneranno i prati”. Immaginare il calcio che verrà.

 

Il calcio è alla “fine della storia”, per citare Fukuyama? Ma quando mai. Senza volare troppo lontano, guardiamo all’Italia: 3,69 gol di media a partita, una cifra folle, mai vista, di gran lunga superiore agli altri top 5 campionati europei. Abbiamo abbandonato la prudenza e il tatticismo e abbracciato la proposta: hanno qualcosa da dichiarare persino le tre neopromosse, in altri tempi sinonimo di prudenza. Gioca a calcio lo Spezia, gioca a calcio il Crotone, gioca a calcio il Benevento anche a costo di prenderne cinque da Inter o Roma. Rifugge le barricate e gioca un calcio aggressivo fino all’ossessione anche la miglior difesa del campionato, il Verona del “piccolo Gasperini” Juric che ha tenuto in scacco per un’ora la sfilacciata Juventus. Non facciamo gli idealisti: da parte di certi allenatori c’è anche una considerevole dose di furbizia, l’etichetta di “quello che gioca bene” a volte vale il passaporto per un grande club più che quindici anni di salvezze consecutive. Eppur si muove. La bellezza stimola l’incertezza, la sensazione di una svolta imminente è amplificata dal tremendismo della pandemia, secondo cui “nulla sarà più come prima”. Se n’è accorto il Milan che si è seduto sull’interruttore della Storia senza nemmeno accorgersene, presa per mano dal suo gigante svedese che sembra il supereroe solitario di un film post-apocalittico; mentre balbettano le vecchie certezze, la tirannia della Juve e la sicumera dei cosiddetti vincenti, da Conte in giù.

 

Il calcio è finito? Se crediamo alla scienza, secondo la quale nulla si crea e nulla si distrugge, la risposta è certamente no. Dunque ci stiamo trasformando. Diceva bene due settimane fa Giovanni Francesio su queste stesse pagine: il pallone ha svestito i panni del rito di massa novecentesco, consumato in stadi da centomila persone con la bandiera come sostituta della patria, ed è diventato un evento individuale – solitario, se vogliamo. Anche le nuove generazioni simpatizzano sempre meno per una squadra e sempre più per un singolo giocatore, magari scoperto per caso perché esulta in stile Fortnite come Griezmann o afferma di esistere anche fuori dal campo come Rashford (un rischio che troppo pochi calciatori italiani hanno il coraggio di prendersi). Perché dovrebbe essere un male? È, semplicemente, il tempo presente. Il divo Zlatan è popolarissimo non per i gol che faceva con l’Ajax vent’anni fa, ma per i messaggi che lancia su Instagram oggi. La narrazione seriale si presta bene a stagioni da 50 partite e i club più reattivi hanno già provveduto a confezionare prodotti chiusi in cui allenatori, giocatori e dirigenti recitano tutti come attori professionisti, a cominciare da Mourinho. Non capiamo per esempio cosa aspetti il Milan a realizzare la Last Dance di Ibrahimovic che si scriverebbe da sola, giornata dopo giornata, episodio dopo episodio: in questi primi due mesi c’è già materiale sufficiente per una stagione intera. 

 

Il calcio è finito? Di sicuro sta finendo il tempo per chi si lamenta e non si adatta, come quelli che si lagnano del VAR perché segnala i fuorigioco di tre centimetri. Un’uggia da cinquantenni, mentre gli under 20 – i nuovi consumatori, corteggiati da tutti – ignorano la polemica da bar e inseguono la chimera della giocata spettacolare, il desiderio dell’utopia, ridono se incrociano in tv i vecchi opinionisti che non sanno chi sia Sergiño Dest, come negli anni Ottanta alzavano il naso e cercavano novità e conoscenza fuori dagli steccati, mentre i vecchi tutt’al più scuotevano il testone annuendo a Gianni Brera che dava del matto a Sacchi.

 

Abbiamo tutto, ma dobbiamo cercarlo. Le cose accadono al triplo della velocità, i fatti durano novanta minuti sostituiti da nuove opinioni, cliché, banalità che scoloriscono in tre giorni. Ora che abbiamo tutto, abbiamo il dovere dell’intelligenza nella scelta. E se cercheremo bene scopriremo che sistematicamente ogni vent’anni arriva qualcuno capace di cambiare le regole e battere il banco: lo fecero gli olandesi all’inizio degli anni Settanta, lo fece Sacchi con il pressing e il fuorigioco, lo ha fatto Guardiola con la rivoluzione dello spazio. È quasi statistica: il decennio appena iniziato si concluderà con un nuovo “grande passo per l’umanità”, una nuova rivoluzione concettuale che però sembra muovere proprio da questi giorni incerti e confusi. Di solito le svolte del calcio si accompagnano a una nuova e rumorosa rivoluzione culturale, che sia il rock o i social network, e dunque il Milan di Sacchi andava a braccetto con la rivoluzione televisiva di Berlusconi, mentre il Barça di Guardiola apparve in tempo per fare irruzione sui nostri smartphone. Il calcio e il mondo del 2030 sono ancora inimmaginabili, ma qualcosa accadrà. 

 

E con tutta questa grande ricchezza virtuale torniamo concettualmente a quarant’anni fa, quando le cose erano misteriose e bisognava andarsele a cercare davvero, trafficare con l’antenna sul tetto per prendere Capodistria o abbonarsi alle riviste tedesche e olandesi per sapere cosa facevano l’Ajax, l’Aston Villa o il Borussia Monchengladbach, coltivare una passione lontana dal conformismo – che oggi è tutto ciò che ci viene servito già incellophanato senza sforzi, senza stuzzicare pensieri laterali che ci distolgano dalla retorica dei “maestri” predestinati e ben vestiti come l’Imperatore della fiaba di Andersen o dai finti e patetici entusiasmi per un calciomercato quello sì fuori tempo e fuori luogo, con bilanci dissanguati dalla pandemia.

 

In quest’atto di amore e resistenza spero di non essere risultato ridicolo come l’amico intellettuale di Caro Diario che Nanni Moretti si porta dietro in Sicilia, quello che all’inizio odia la tv e poi la scopre e non riesce che a parlare di tv. C’è ben altro oltre al pallone, ci mancherebbe. Ma il romanzo che ci riempie e colora la vita da venti, trenta, cinquant’anni non è arrivato all’ultima pagina. Funziona come con la pandemia: preso atto che nessun governo sta riuscendo a combinare qualcosa di buono collettivamente, la salvezza passa dalla responsabilità individuale, dalla fiducia e dalla curiosità. Il futuro lo scopriremo noi, gente di buona volontà presa in mezzo alla tempesta, per esempio guardando oltre le grida di dolore rivolte una volta alla settimana verso un ministero ottuso e incompetente che crede che il calcio sia solo Cristiano Ronaldo, che è come se il ministro della Cultura pensasse che il teatro sia solo la prima della Scala (uhm, temo di aver sbagliato esempio). No, è molto di più.

Di più su questi argomenti: