(foto LaPresse)

Si esulta con qualcuno o non si esulta. Che tristi le coppe alzate negli stadi vuoti

Piero Vietti

Cercare lo sguardo dei tifosi e trovare solo telecamere

Una delle stagioni di calcio più strane di sempre si è conclusa con la vittoria del Bayern Monaco contro il Paris Saint-Germain in Champions League, in uno Stadio da Luz deserto, in una Lisbona senza tifosi delle due squadre tranne qualche coraggioso (e presto sbronzo) che in serata è andato a festeggiare nel centro della città portoghese. Dopo avere giocato con un pallone su cui c’era scritto Istanbul (sede originaria della finale prima che arrivasse il Covid), i giocatori della squadra tedesca hanno alzato la coppa festanti, fingendo di non accorgersi che lo stavano facendo davanti a nessuno, solo gli applausi e le grida dello staff tecnico a echeggiare nel deserto attorno al campo. Scappava loro un po’ da ridere, e non era solo l’euforia per la vittoria, ma il rendersi conto che gran parte dei gesti che stavano facendo appariva improvvisamente ridicola, come certe telecronache urlate di queste settimane, surreali nel silenzio che cercavano di riempire esagerando ogni particolare. E’ lì che abbiamo capito definitivamente, anche se il sospetto ci era già venuto dopo la Premier League del Liverpool, lo scudetto della Juve, la Coppa Italia del Napoli: si gioca, si vince e si perde solo per qualcuno, e questo non è del tutto possibile se non si esulta davanti a qualcuno, se non si festeggia con qualcuno.

 

I calciatori oggi sono sempre più attori, hanno retto bene la parte fino al momento culminante, erano certamente emozionati, felici, soddisfatti, hanno sorriso e urlato di gioia, ma quando si sono resi conto che le loro braccia erano state alzate al cielo per fotografi e telecamere soltanto, per tifosi lontani che li guardavano dal divano o ben distanziati in qualche pub bavarese, i loro sorrisi si sono fatti un po’ più tristi. Hanno posato accanto alla Coppa come quando prima della finale è esposta al pubblico e tutti possono farsi un selfie con lei, non hanno corso verso la curva, non hanno ballato in campo al ritmo dei tifosi sugli spalti. Il fatto è che così al fischio finale manca il sisma, l’esplosione furibonda, la smisurata grandezza, il fragore di una gloria viscerale condivisa famelicamente. Senza pubblico la terra non traballa più, gli occhi di chi è in campo non incrociano una baraonda diversa ma uguale a quella che chi vince ha in petto, senza qualcuno che accoglie e abbraccia la vittoria il vuoto degli spalti fa da rinculo allo sparo del trionfo. I giocatori cercano sguardi in cui specchiare la vittoria, ma una volta esauriti quelli dei propri compagni trovano soltanto il vetro scuro della telecamera. Hanno vinto, questo rimarrà negli albi d’oro, ma a esplodere assieme ai coriandoli colorati del palchetto per le premiazioni è stata la mestizia di una vittoria castrata, la malinconia di quei seggiolini che aspettavano i culi trepidanti dei tifosi e sono rimasti vuoti.

 

Tra meno di un mese dovrebbe ricominciare la Serie A, il presidente di Lega Paolo Dal Pino dice che stanno studiando la possibilità di riaprire gli stadi almeno in parte, ma la sensazione è che se i contagi continueranno a salire nessuno avrà il coraggio di farlo. Il calcio senza tifosi diventa recita mediocre quasi fine a se stessa, e il dramma è che potremmo abituarcene in fretta. Ci convinceranno che è più sicuro così (e quasi certamente avranno ragione) e che in fondo è bello anche così: niente più freddo, cori razzisti, scontri allo stadio. Al sicuro nelle nostre case guarderemo sempre più annoiati i ragazzi affannarsi per una vittoria che magari ci farà scendere in piazza, ma con il timore della ramanzina degli esperti e del ditino alzato dei commentatori. Non è di business che stiamo parlando, anche se lo sport senza pubblico dal vivo è destinato a morire per come lo conosciamo e amiamo oggi, ma di carne e fiato, qualcuno per cui battersi e vincere, qualcuno con cui esultare. Molti campioni raccontano il vuoto percepito dentro di sé nell’istante in cui avevano capito di avere vinto una finale. C’è chi parla di tristezza, chi di insoddisfazione. Adesso che quel vuoto è anche fuori, vincere sarà come perdere qualcosa.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.