(foto LaPresse)

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Troppa politica fa male allo sport, attenti

Jack O'Malley

Imbarazzi in Premier League per gli attacchi di Black Lives Matter a Israele: saranno mica razzisti?!

Dei rapporti pericolosi tra sport e politica hanno scritto e scrivono colleghi, saggisti ed esperti molto migliori e più preparati di me, che al massimo ne parlo al pub con i miei amici dopo la terza birra media e potrei facilmente essere bollato come populista dal salotto impegnato che passa le proprie giornate su Twitter a indignarsi perché non si fa abbastanza contro il razzismo. Non cadrò nella facile trappola di parlare della calciatrice statunitense (ma di cosa stiamo parlando? Calciatrice e statunitense) Samantha Leshnak Murphy, inginocchiatasi durante il minuto di silenzio per le vittime del razzismo ma non durante l’inno nazionale (beato un popolo che non ha bisogno di eroi, sfigato quello che se li va a cercare in uno scatto decontestualizzato). Mi chiedo però se siamo davvero pronti all’irruzione della propaganda politica nello sport. Fino a che c’è da dire che essere razzisti è sbagliato siamo tutti d’accordo, ma dato che l’antirazzismo teorizzato si incarna poi in conseguenze pratiche discutibili (si veda la brutta fine che ha fatto la comune anarchica sorta a Seattle dopo la morte di Floyd), quanto conviene ad atleti, giocatori, società e federazioni abbracciare cause che poi possono provocare imbarazzo? Una volta sdoganate, incoraggiate e apprezzate le manifestazioni di appartenenza a cause politiche, chi potrà dire “questo sì”, “questo no”? Bene inginocchiarsi in Italia per ricordare il razzismo negli Stati Uniti, male celebrare Erdogan, Orbán o Putin se si è sportivi turchi, ungheresi o russi?

 

Da quando è ricominciata la Premier League, la Football Association ha deciso di abbracciare la causa del movimento Black Lives Matter: tutti i giocatori di tutte le squadre scendono in campo con il famoso slogan stampato sulla schiena al posto del nome (ah, la propria identità, che schifo): un gesto forte che vuole ricordare a tutti quanto sia sbagliato fare distinzioni di razza o dare più o meno valore alla vita di alcuni piuttosto che di altri (e qui ci sarebbe da scrivere un saggio su altre minoranze perseguitate nel mondo e non cagate da Twitter, ma la quarta birra tarda ad arrivare e non ho voglia).

 

Qualche giorno fa però il movimento britannico Black Lives Matter ha pubblicato un comunicato in cui attaccava la politica di Israele, si schierava per la “Free Palestine” e chiedeva di togliere fondi alla polizia. Fastidio e imbarazzo hanno cominciato a serpeggiare tra dirigenti e giocatori (anche di colore) delle squadre del campionato inglese, qualcuno ha iniziato a chiedersi perché essere costretti a indossare i distintivi di BLM sulle proprie divise se quel movimento rischia di scivolare così grossolanamente verso antisemitismo e simpatie anarcoidi. Il tutto naturalmente senza farsi troppo sentire, e con la dovuta premessa “non sono razzista, le vite delle persone nere sono importanti, ma…”. In Inghilterra ci si comincia sommessamente a chiedere se l’adesione incondizionata a questo movimento non sia stata eccessiva e frettolosa, una decisione presa sull’onda emotiva delle proteste che all’inizio sembravano così buone e giuste e senza secondi fini politici. Adesso sfilarsi è un bel problema, il rischio di essere considerati razzisti (il giochino dell’opinione pubblica corretta lo conosciamo bene) è altissimo.

 

Che serva almeno di lezione: sport e politica sono legati da sempre, ma in modo conflittuale ed estemporaneo. Fare entrare dalla porta d’ingresso principale movimenti anche mossi dalle migliori intenzioni può avere conseguenze imprevedibili. Nei giorni in cui l’Nfl pensa di iniziare le partite di campionato suonando Lift Ev’ry Voice And Sing, “l’inno nazionale nero”, prima di The Star-Spangled Banner (però quelli divisivi sono sempre gli altri, mi raccomando), pensiamoci: o finiremo per trasformare le Olimpiadi in un’Internazionale.

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