Adriano Panatta (foto LaPresse)

il foglio sportivo

Vivere senza la libertà del campo

Giorgio Burreddu

“Giusto fermare tutto lo sport. A casa non soffro, ma mi girano i coglioni”. Parla Adriano Panatta

La libertà sta in una palla tagliata, in una volée. Magari in una veronica. “Quella no, la mia veronica non è mai stata un gesto di libertà, mi usciva e basta. Il perché non lo so. La colpivo, e la pallina andava sempre a finire lì. Liberamente”. Adriano Panatta è stato libero sempre. Nella volontà e nella rappresentazione. “Sognavo di vincere tre cose: Roma, Parigi e la Davis. Ci sono riuscito”. Libero nell’espressione, nell’ironia, nel talento, libero di dire la verità. Libero nel tennis, libero di giocare con i ricordi tenendoli sempre su un filo leggero. Ironia e saper vivere. “Sono nato nel ’50, praticamente durante il boom, la guerra era finita da poco, non c’era una lira, ma io ricordo di aver avuto un’infanzia bellissima, libera, sono stato figlio unico per dieci anni, mio fratello Claudio è arrivato dopo, e io giocavo da solo, e la mia libertà era quella: organizzarmi come poteva fare un ragazzino a quel tempo”. Prigioniero ce lo fece diventare il tennis, in un certo senso. Ma per un gioco del destino. Suo padre aveva deciso di fargli fare un corso di nuoto, però il giorno che andò in piscina a iscriverlo di posti liberi non ce n’erano più. Così tornò a casa con una racchetta che avevano buttato via dal circolo Parioli, dove faceva il custode, segò via un pezzo di manico, disegnò le righe sul cemento e consegnò a suo figlio Adriano la libertà di immaginarsi il futuro. Luminoso, ovviamente.

 

Adesso che c’è il virus a condizionare le nostre giornate, la libertà è qualcosa su cui riflettere, qualcosa che possiamo misurare. “Essere veramente liberi sarebbe bello. Secondo me la piena libertà non esiste per nessuno, saranno almeno mille, un milione, le volte in cui non mi sono sentito completamente libero di dire o di fare qualcosa. A volte ti freni anche per buona educazione. Però forse in queste settimane la stragrande maggioranza degli italiani ha capito una cosa: la responsabilità. Il rinunciare a una parte di libertà per gli altri. Quelli che non l’hanno capito sono scemi. Ma quella è ignoranza, non puoi farci nulla”.

 

Lo sport ha rinunciato a tutto, ai gesti e all’aggregazione, e se questa non è una mancanza di libertà, allora cos’è? “Lo sport ha cercato di resistere, ogni singolo atleta ha fatto un programma con il suo allenatore, ma tutto è andato per aria. È giusto che sia così. Non si può fare un evento importante come l’Olimpiade in queste condizioni. Anche il tennis si deve adattare. Ad agosto magari sarà tutto finito, ma ci sarà uno strascico, forse la normalità la riavremo a settembre. Lo sport dà un grande senso di libertà. Parlo dello sport nel campo di gioco, quando gli atleti sono lì dentro, dentro al campo, quello per loro è il vero senso di gratificazione, di libertà. Quello che sta intorno all’improvviso non conta più, che sia industria o politica, quando sono lì gli sportivi sono liberi”. Lui fu libero di indossare una maglietta rossa contro il regime, contro Pinochet, nel ’76, in Cile. “Quello fu un segnale contro un delinquente, perlomeno doveroso. Il vero gesto di libertà lo feci nel mio ultimo match di Coppa Davis, perdendo. Fuori dal Foro Italico c’era un ragazzino, io stavo andando alla macchina, mi fermò: “Mi regali la racchetta?”. No, te le regalo tutte. Mi ricordo ancora i suoi occhi, quel senso di sorpresa e gratitudine. Ecco, quello è stato un momento in cui mi sono sentito veramente libero”.

 

Esce poco, il tempo della spesa. “Una volta a settimana, quindici minuti. La cosa che mi colpisce di più sono le persone che ti scansano, si scansano, e sono tutti irriconoscibili, le mascherine, le sciarpe, gli occhiali, siamo un gruppo di anonimi che gira, vaga, si sbriga, e va a destra o a sinistra a seconda di dove vai tu. C’è un po’ di paranoia purtroppo”. In casa, Panatta scivola tra la cucina e il letto, è da letto che fa tutto: legge, scrive, telefona, guarda la tv. Retaggio degli anni Settanta, quando la casa la condivideva con Paolo Bertolucci, che stava fisso in salotto. “Io non soffro tantissimo, sono sempre stato un casalingo, non mi sento soffocare”. Il concetto di libertà cambia nel tempo e nello spazio. “La mia generazione non ha fatto la guerra, però abbiamo passato il terrorismo, gli anni di piombo. Io abitavo in Toscana, mi ricordo i posti di blocco quando tornavo, i sacchi di sabbia a Roma Nord. Mio nonno mi raccontava del Ventennio, di quando la libertà non c’era. Faceva il marmista, è diventato cieco con una scheggia. Ha contribuito a tirare su il Colosseo quadrato, all’Eur. Lui era amico di Nenni, i fascisti lo avevano menato due o tre volte, a casa mia si parlava di socialismo, io sono sempre stato di sinistra. Comunista mai, perché il comunismo l’avevo visto: andavamo due o tre volte l’anno nei Paesi dell’Est, e i miei coetanei non potevano venire a giocare da noi, non potevano neanche bere la Coca-Cola. Non c’era libertà“. Qualcuno adesso sente la mancanza della libertà che c’era prima. “Il nostro è un grande popolo, che trova il meglio di sé quando le cose sono scappate un pochino di mano. Però reagisce. L’italiano è per bene. Quelli sui balconi li ho visti cantare, liberi di farlo. E poi ci sono quelli come me, a cui girano i coglioni”.

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