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il foglio sportivo

Cruyff non si era accorto della sua grandezza. Parla il suo biografo

Giorgio Coluccia

Jaap de Groot è stato il consigliere e l’ombra fedele del Profeta del gol. “Johan ha trasformato le squadre dove ha giocato, i suoi compagni e il calcio intero”

Papà non c’è più, ci ha lasciati poco fa. Non serve che tu prenda il primo aereo, sarà cremato oggi stesso”. È il 24 marzo 2016, la notizia che il calcio mondiale ha appena perso la sua icona rivoluzionaria arriva prima in Brasile che altrove. Al telefono ci sono il figlio di Johan Cruyff, Jordi, e Jaap de Groot, ombra fedele del Profeta del gol. Amico fidato, ma anche consigliere, ghostwriter, giornalista che l’ha seguito dappertutto e in eredità agli adepti ha lasciato un’autobiografia di successo, “La mia rivoluzione”, tradotta in ventiquattro lingue e con oltre un milione di copie vendute nel mondo. Quella mattina, per via del fuso orario, de Groot sta ancora facendo colazione, ormai da alcuni giorni si trova a Rio de Janeiro, dove ha deciso di isolarsi per finire la stesura del libro, riascoltando ore e ore di registrazioni: “La nostra ultima telefonata fu molto triste” racconta il biografo olandese al Foglio sportivo “perché Johan a malapena riusciva ad articolare le parole. Due giorni prima della morte lo richiamai ancora, ma rispose sua moglie Danny facendomi capire che le condizioni si erano aggravate. Decisi di non insistere, avevo capito che non c’erano più speranze e la situazione era precipitata nel giro di una settimana. Iniziarono a passarmi tanti ricordi per la testa, tra cui la nostra ultima cena al ristorante El Trapio di Barcellona qualche settimana prima. Finita l’ultima intervista per il libro, ordinò una bottiglia di champagne. È stata l’ultima volta in cui l’ho visto davvero felice, nonostante lo stato di avanzamento della malattia. Gli chiesi, come vorresti essere ricordato tra 100 anni? ‘Non mi importa, ne ho già 68, tra 100 anni sarò ancora qui?’”.

 

In video, su Skype, de Groot mostra lo scontrino di quella serata, la quarantena mondiale lo costringe a restare nella sua Volendam, paesino alle porte di Amsterdam. Alle sue spalle, spiccano due immagini simbolo, il ruggito di Muhammad Alì contro Liston del 1965 e l’Olanda schierata prima della finale Mondiale del 1974 a Monaco. In campo s’intravedono quelle gambe da fenicottero e quel fisico scattante, il simbolo del calcio totale che si dichiarò al mondo attraverso le gesta di un immortale numero 14. “Cruyff ha trasformato quella squadra, i suoi compagni e il calcio intero” prosegue de Groot “ma dava sempre l'impressione di non rendersi conto della sua stessa grandezza. Era proprio come appariva, cercava la normalità e non la ribalta. Assieme a lui ho girato tutto il mondo, abbiamo portato ovunque i progetti della Fondazione ed era uno degli aspetti di cui andava più fiero. È stato divertente la volta che siamo andati a Londra, per inaugurare uno dei suoi campi con Dennis Bergkamp e volle a tutti i costi prendere la metro perché non l’aveva mai fatto. In tanti lo riconobbero, lui ricambiava i saluti e fu come averlo portato al luna park. La Cruyff Foundation è sbarcata ovunque, perfino in India, in Giappone, in Sudafrica, ma l’avventura più bella resta quella ai Caraibi quando riuscì a ottenere l’apertura di un Cruyff court alle pendici del vulcano, sull’isola di Saba, la più piccola delle Antille olandesi. Posti magnifici, giravamo con un monomotore da turismo, a un certo punto siamo arrivati tardi al punto di ritrovo per rientrare a Saint Martin e abbiamo visto l’aeroplano alzarsi in volo. Il pilota si era dimenticato di noi, Johan iniziò a correre e a urlare come un disperato! Per fortuna nel giro di un paio d’ore tornarono a prenderci”.

 

Il giornalista olandese, per 43 anni prima firma sportiva del quotidiano De Telegraaf, il giorno dopo la notizia del decesso volò da Rio a Barcellona e la prima persona ad abbracciare fu Pep Guardiola, colui che più di tutti è stato ispirato da Cruyff nella ricerca della creatività, del provare a spingersi oltre. “Non solo allievo e maestro” aggiunge de Groot. “Il loro è stato un rapporto basato su di una profonda amicizia. Johan non aveva tanti amici nel calcio, nel club ristretto c’erano Pep, Rijkaard, Koeman, Platini e Beckenbauer. In tanti parlano del suo profondo legame con Rinus Michels, ma è stato un rapporto tumultuoso, lo definirei di odio e amore. Quel legame si raffreddò nella primavera del ‘90, quando Michels lo estromise dalla corsa alla panchina della Nazionale olandese per i Mondiali in Italia. Scelse Leo Beenhakker e fu un disastro, Johan rimase malissimo, ma con il passare del tempo l’ha perdonato e durante le registrazioni per l’autobiografia mi ha confidato ‘Jaap, io non dimentico. Quando ho perso mio padre, a soli quattro anni, Rinus è stato l’unico a restare davvero vicino, mi accompagnava dal medico o agli allenamenti quando iniziai a giocare a calcio. Non posso cancellare tutto questo’”.

 

Da bambino Johan ha avuto un idolo tutto suo, Faas Wilkes, raffinata mezzala offensiva che a fine anni Quaranta divenne il primo calciatore professionista olandese a sbarcare in Italia, vestendo le maglie di Inter e Torino dal 1949 al 1953.

 

 

Come racconta de Groot: “Johan era attratto dalla sua personalità e dalla sua tecnica sopraffina, impazziva per quei dribbling. Mi ripeteva sempre che il calcio doveva far divertire la gente, il rigore a due tocchi del 1982 non fu un modo per umiliare gli avversari dell’Helmond, ma un gesto istintivo, nato sul momento con Jesper Olsen e non studiato a tavolino prima della partita. Dopo una dura settimana di lavoro, i tifosi allo stadio andavano sorpresi con giocate di questo tipo. Se il calcio olandese avrà mai un suo erede? Non credo sia possibile, Cruyff era unico. Ma ultimamente uno come Verstappen sta facendo esaltare il nostro paese dal punto di vista sportivo e quando prendo i taxi in giro per il mondo iniziano a farmi il nome di Max, non solo quello di Johan. Ero al Montmeló quando i due si sono incontrati per la prima volta, dovevamo restare dieci minuti dopo le prove invece sono andati avanti a chiacchierare per tutto il pomeriggio. Sembrava un passaggio del testimone perfetto”. Una delizia per gli occhi, quasi fossimo al Rijksmuseum per Rembrandt.

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