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L'intramontabile Rodrigo Palacio e lo spirito del Bologna di Mihajlovic

Leo Lombardi

Nel fine settimana della Serie A sospesa per Coronavirus l'argentino ha dimostrato ancora una volta che “quelli come lui non hanno età”. L'elogio è di Roberto Baggio

“Quelli come lui non hanno età”, l'elogio di Roberto Baggio. E Rodrigo Palacio è ancora lì a dimostrarlo, stagione dopo stagione, annata dopo annata. In Italia è una presenza consueta dal 2009, gli anni appena compiuti sono trentotto. Una enormità per chi gioca a calcio, soprattutto quando si è uomini di movimento. Ma quelli di Palacio sono gesti elastici e rapinosi come un tempo, eredità del basket frequentato in gioventù. Inevitabile quando si nasce in Argentina e si nasce a Bahia Blanca, dove la palla a spicchi è una religione e Manu Ginobili (anch'egli venuto al mondo laggiù) il suo profeta, esempio di campione e di longevità al tempo stesso.

 

Immediato il paragone con Roberto Baggio, per il codino che caratterizza entrambi – pur se quello di Palacio è una semplice treccia che spicca sul cranio rasato – e per la nuova giovinezza vissuta a Bologna. Baggio si veste di rossoblù a trent'anni nel 1997, scaricato come un vecchio arnese dal Milan: in trenta giornate segna ventidue gol e si guadagna la convocazione di Cesare Maldini al Mondiale francese. Resta una sola stagione, sostituito da Beppe Signori, alla ricerca di un rilancio dopo gli anni belli alla Lazio. Anche lui ha trent'anni, anche lui entra nel Pantheon dei tifosi emiliani. Ultimo esempio, Marco Di Vaio, che a Bologna approda nel 2008, a trentadue anni, per quattro stagioni di alto profilo. Come sta capitando a Palacio, giunto in rossoblù nel 2017. Prima c'era stata la consacrazione nel Boca Juniors, dove nel 2009 lo pesca il Genoa. Enrico Preziosi ha un particolare feeling con l'Argentina. Deve sostituire un altro talento scoperto da quelle parti: è Diego Milito, destinato all'Inter, dove sarà uno dei protagonisti del Triplete nel 2010. Il Boca è il club più genovese dell'Argentina, il passaggio di Palacio dai Xeneizes ai genoani è pressoché naturale. Un po' meno l'ambientamento, perché prendere il posto di uno che ha salutato dopo ventiquattro gol non è mai semplice.

  

E l'inizio si conferma complicato. La prima rete arriva dopo appena quindici giornate, nelle prime due stagioni i gol sono soltanto sedici. E anche se tecnicamente il paragone con Milito è improponibile (prima punta l'interista, attaccante esterno il rossoblù), qualcuno mugugna. Fino a quando non si materializza la terza stagione, quando Palacio salva il Genoa dalla retrocessione con 19 reti, passaporto per andare pure lui l'Inter nel 2012, dove gioca per due stagioni con Milito, dispensando emozioni fino al 2017. Quelle che sa offrire una punta abile nel dialogo stretto, implacabile in area e fenomenale nel contropiede: il salvagente cui aggrapparsi in anni di panchine complicate.

  

Perché Palacio non solo segna, ma è il giocatore che ogni club vorrebbe avere: mai polemico, sempre disponibile, alieno agli atteggiamenti divistici, disponibile verso i compagni. Un modo d'essere che mantiene intatto al Bologna, dove il compagno di squadra Mitchell Dijks racconta quasi incredulo di un Trenza che arriva agli allenamenti con la Renault aziendale. E in rossoblù l'argentino incarna perfettamente lo spirito infuso da Sinisa Mihajlovic. È lui il leader di una squadra che non molla, capace di raccogliere punti in cinque occasioni con un gol tra 90' e dintorni. Quello di Palacio all'Udinese, in una delle poche partite salvatesi dal ciclone Coronavirus, è arrivato a due minuti dal fischio finale, per l'1-1 che ha evitato la sconfitta. Una rimonta determinata da un carattere cui nessun rossoblù è alieno, pena le severe reprimende di Mihajlovic. Non è un caso che l'altro motore della riscossa sia stato Andri Baldursson, il ragazzino islandese buttato in campo dal tecnico nella ripresa e diviso da Palacio da venti anni giusti giusti di età. Il calcio è un questione di fame, la carta d'identità non conta.

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