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Pietro Anastasi è una canzone di Battiato

Gino Cervi

Addio all'ex attaccante della Juventus e della Nazionale, che per tecnica assomigliava talvolta alla musica dodecafonica: quando si trovava il pallone tra i piedi non potevi mai sapere che cosa sarebbe potuto succedere

Questa mattina quando ho letto della morte di Pietro “Pitruzzu” Anastasi per quegli strani collegamenti della memoria hanno cominciato a girarmi nella testa i versi di una canzone di Battiato, Veni l’autunnu. È una canzone in dialetto catanese che parla della ripresa della scuola, delle giornate che si accorciano, degli alberi che perdono le foglie, e poi di una processione con i fuochi d’artificio… "Sicilia bedda mia Sicilia bedda".

 

 

"Pitruzzu beddu miu Pitruzzu beddu" cantavo cambiando le parole a Battiato. E pensavo che oggi lo avrebbero potuto pensare o cantare tutti quei miei amici juventini e siciliani che cinquant’anni fa passavano, come me, i pomeriggi in cortile a tirare calci a un pallone, con le magliette stinte e infeltrite che, seppure a colori, sembravano anche loro in bianco-e-nero come quelle che all’epoca si vedevano in tv.

 

"Io faccio Mazzola" dicevano gli interisti, "io Rivera" rispondevano i milanisti come me; ma i ragazzini juventini tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta volevano tutti essere Pietro Anastasi.

 

Pitruzzu, catanese come Battiato, “esplose” nella tarda primavera del ’68, quella delle università occupate dagli studenti, delle manifestazioni in piazza, degli scioperi duri agli stabilimenti Marzotto di Valdagno, ma anche quella degli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy. Aveva appena vent’anni e lo fecero esordire in Nazionale nella doppia finale del Campionato europeo contro la Jugoslavia: 0-0 l’8 giugno e 2-0, nella ripetizione del match, due giorni dopo, il 10 giugno. Suo fu il gol del raddoppio, bellissimo:

 

 

Anastasi riceve un passaggio al limite dell’area. Controlla il pallone alzandoselo un poco e tira una sventola di destro a incrociare sul primo palo dove Pantelič, il portiere jugoslavo, non può arrivarci in tuffo. I gol di Anastasi erano spesso così: fulminei, come i botti della festa patronale. "Sparunu i bummi supra a Nunziata / ‘n cielu fochi di culuri / ’n terra aria bruciata" come canta Battiato.

 

Anastasi era partito da Catania nel 1966. Alfredo Casati, un dirigente del Varese, che allora giocava in serie B, lo aveva visto fortunosamente giocare una partita al Cibali, Massiminiana-Paternò, di serie D. Giocava da due anni nella Massiminiana, che portava il nome di Angelo Massimino, potente imprenditore edile che anni dopo divenne anche presidente del Catania. Casati non esitò: alla fine della partita scese negli spogliatoi e chiuse l’accordo. La stagione seguente Pitruzzu si sarebbe trasferito al nord, a giocare nel Varese.

  

A metà anni Sessanta, anche Battiato, figlio di un camionista, alla fine del liceo e alla morte del padre, era partito da Catania, per provare a fare il musicista a Milano. Frequentava i locali dove si suonava musica dal vivo, i cabaret. Al Club 64 fu notato da Giorgio Gaber che gli procurò i primi contatti con una casa discografica, per la quale incise le prime canzoni, vagamente ispirate ai temi di protesta sociale. Il primo maggio del 1967 comparve per la prima volta in televisione, in una trasmissione dal titolo Diamoci del tu. Battiato aveva ventidue anni, portava gli occhiali scuri e sembrava Rosario Chiàrchiaro, il protagonista della novella di Pirandello La patente.

 

Anastasi invece lo chiamavano ‘u turcu, perché fin da ragazzino, a furia di stare sotto il sole a giocare a pallone diventa nero come un mediorientale. Aveva una faccia, e un cognome, bizantino: capelli come l’inchiostro, due cespugli di sopracciglia che quasi diventavano uno solo sopra a due occhi di carbone acceso. A Varese si trovò bene: si fidanzò con Anna, la donna che sarebbe diventata sua moglie, e continuò a segnare. Di gol ne fece addirittura 3 in un clamoroso 5-0 che il sorprendente Varese rifilò alla Juventus il 4 febbraio 1968. A fine stagione sembrava fatto il suo trasferimento all’Inter. Addirittura il 18 maggio giocò un’amichevole in maglia nerazzurra, ma nell’intervallo gli vennero a dire che il suo futuro non sarebbe stato a Milano, ma a Torino, sponda Juventus. Era successo che al commendatore Borghi, presidentissimo del Varese, nonché padrone della Ignis, la fortunatissima azienda di frigoriferi che negli anni Sessanta riforniva le case di quasi tutte le famiglie italiane, all’ultimo momento fece cambiare idea un’irrinunciabile offerta dell’avvocato Agnelli: oltre ai 650 milioni di lire, la Juventus fu pronta ad assicurare a Borghi una cospicua fornitura di compressori per frigoriferi. Anastasi coronò un sogno: da ragazzino al Cibali aveva rincorso John Charles per farsi fare l’autografo e dieci anni dopo si ritrovò a giocare in maglia bianconera. Venti giorni più tardi, Pitruzzu ‘u Turcu vinceva il Campionato europeo in maglia azzurra con quel fantastico gol.

 

Ma anche per Battiato nel 1968 parve arrivare il successo: per una nuova casa discografica, la Philips, incise una canzone, È l’amore, che vendette 100.000 copie che non erano nulla a fronte dei milioni di 45 giri venduti da Gianni Morandi, ma abbastanza per sorprenderlo un giorno vergognarsi per aver sentito in Galleria, a Milano, un gruppo di ragazzi che stava cantando la sua canzone. Apparve di nuovo in televisione, a Settevoci, una trasmissione condotta da un esordiente Pippo Baudo, e l’anno dopo partecipò al Disco per l’estate. Era alle soglie della popolarità però capisce che quella musica non faceva per lui. E iniziò così la sua stagione di sperimentalismo, di avanguardia colta, tra il rock psichedelico e l’elettronica, le prime esplorazioni delle sonorità mediorientali e la dodecafonia alla Stockhausen.

 

Anche la tecnica di Anastasi assomigliava talvolta alla musica dodecafonica. Quando si trovava il pallone tra i piedi non potevi mai sapere che cosa sarebbe potuto succedere nello spazio di un secondo. Uno stop sbagliato diventava la mossa che metteva fuori causa il difensore, un tiro stonato e controtempo non lasciava scampo al portiere. Pitruzzu diventò presto l’idolo della Torino bianconera, e dei moltissimi tifosi “terroni” arrivati al Nord per cercare fortuna: con il pugliese Franco Causio, l’altro siciliano Beppe Furino, l’algherese Antonello Cuccureddu, il calabrese Silvio Longobucco fece parte di quella legione meridionale che innervava la nuova Juventus che avrebbe vinto tre scudetti in quattro stagioni, dal 1972 al 1975. Per Giovanni Arpino, Pitruzzu era la trasfigurazione di Rosario, il pastore ragazzino de Le città del mondo, il romanzo incompiuto di Elio Vittorini.

 

Ma la “stagione del pallone viene e va” e anche lo sperimentalismo di Anastasi chiuse la sua epoca. Incomprensioni interne alla squadra, con l’allenatore, la vecchia gloria juventina Carletto Parola, lo misero ai margini e nel 1976 venne scambiato con Roberto Boninsegna, per anni bandiera interista. Ma se Boninba, pur più “anziano” di cinque anni avrebbe trovato una seconda giovinezza sotto la Mole, Anastasi si sarebbe presto ingrigito tra le nebbie dei Navigli.

 

Del resto negli stessi anni, anche Battiato si lasciava alle spalle avanguardia e controcultura e negli anni in cui Anastasi chiudeva la carriera ad Ascoli (1978-81) e poi nel Lugano (1981-82), diventava il protagonista della nuova scena pop degli anni Ottanta. «Mr. Tamburino non ho voglia di scherzare / rimettiamoci la maglia i tempi stanno per cambiare…».

 

Ma sono convinto che oggi a ringraziamento e memoria di Pitruzzu Anastasi i tifosi juventini sui ponti dei loro cuori innalzeranno e faranno di certo sventolare bandiera bianconera.

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