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il foglio sportivo

Perché sempre tu, Balotelli?

Marco Archetti

La vita da capro espiatorio di Super Mario, il cuore spezzato dei suoi tifosi e le occasioni che non ci sono più

Ad aspettare Godot finisce che era meglio non aspettarlo – “ci impiccheremo domani, a meno che Godot non venga”, “E se viene?”, “Saremo salvati”. Ad aspettare Mario Balotelli finisce che era meglio l’inizio. E l’inizio erano i giorni verdi e ingenui di quando ci credevi, anche se era agosto e solo agosto, cioè, nel caso specifico, qualcosa come tre mesi fa, tre mesi che però sono tre vite fa, le quali comunque, fatto un rapido calcolo, sono numericamente almeno la metà di quelle in cui Mario non ha combinato niente – ma niente è già iperbole, pensando a queste grottesche reincarnazioni tragicamente uguali a se stesse. Perché se Balotelli ha sette vite come i gatti (prima o poi si incepperà anche la giostra di possibilità che gli vengono concesse) è altrettanto vero che un tifoso ne ha una sola. E quella sola si consuma nell’anno presente, non certo in quello successivo, men che meno nel precedente che, come risaputo, è materia d’archivio, o tutt’al più di letteratura orale al bar – il calcio è questa fatale e costante educazione all’hic et nunc: poco retrovisore, molta carreggiata avanti; per una squadra che deve salvarsi, poi, quella da percorrere è lunga e indocile, e da queste parti lo sappiamo bene, è la nostra storia.

 


Illustrazione di Frelly (Enrico Focarelli Barone)


 

Ma veniamo a noi: anzi, a me, che proprio su questo giornale, tre mesi fa, cioè tre vite fa, suggestionato dalle evenienze, impugnando la lira, parlavo di Balotelli e mi macchiavo di pregiudizi che ora vorrei denunciare. Ebbene sì, i miei soliti e odiosi pregiudizi (positivi) a proposito di un Mario che ritenevo ancora capace di essere super. I contenuti della mia tesi erano ispirati da questa domanda: sarà finalmente la stagione-Cocoon di un giovane vecchio finito ben prima di cominciare e mai davvero ricominciato dopo che è finito? E mi profondevo in descrizioni schiette ma colme d’amore, e voglio dire, d’amore vero, quell’amore disposto a perdonare, a sopportare, a farsi monumento a se stesso… E liricheggiavo: “…super Mario pieno di mostruose doti eppure sottomesso alla somma schiacciante dei propri contrari, mela marcia e nemico degli amici, Re incontrastato delle conversazioni che cominciano con l’avverbio potenzialmente e che ora deve convincere il mondo intero che si è convinto: a salvarsi dall’eterno ritorno di se stesso e a dimostrare di avere una testa non solo per tener separate le orecchie”. E ovviamente dichiaravo di crederci. “Nessun dubbio”, scrivevo, “siamo la piazza giusta, l’unica possibile”. E poi ero convinto che insomma, arrivano i trent’anni, l’età della ragione per antonomasia, la zona-Cesarini dell’adultaggine, e perfino uno come Balotelli qualcosa l’avrà capito, lo dimostrerà, e lo farà proprio qui, a casa sua, il luogo dove ogni potenzialmente diventerà effettivamente. Suonava bene, suonava giusto. Di più: io ero addirittura esaltato dal fatto che uno così ingovernabile trovasse finalmente una chiave, e la trovasse – magia! – restando tutto sommato se stesso, senza cambiare troppo, non rinunciando alla spocchia e alla provocazione ma trovando un’incredibile cruna attraverso la quale passano i più impensabili cammelli, perché io, lo confesso, non sono buono né buonista, al contrario, sono un vero stronzo, un tifoso immondo, e avrei uggiolato di gioia nell’avere a Brescia un Grande Antipatico che la faceva a tutti, e sarei stato dalla sua senza se e senza ma, fragorosamente felice, e a dirla tutta mi vedevo già nuotare a rana nel brodo di giuggiole cucinato per me dal meraviglioso risentimento altrui. Bene, lezione numero uno: mai abbandonarsi ai pregiudizi.

 

Lezione numero due: mai fare i conti senza l’oste, soprattutto se l’oste è Cellino, uno capace di due scelleratezze: esonerare un allenatore vero come Eugenio Corini, artefice della promozione e galantuomo, uno che lavora seriamente e che Balotelli sapeva come farlo giocare, intendendosene di calcio più che di trovate mediatiche. E poi di chiamare un grande indifendibile come Grosso, parodia di una parodia di un allenatore da serie D. E siccome ogni evento va visto in correlazione, i dubbi, a conti fatti, sono che: 1) Balotelli sia lì apposta per fare il capro espiatorio per la milionesima volta, e 2) che Cellino non veda l’ora di frapporlo tra sé e le sue marronate.

 

(Tuttavia, se uno è capro espiatorio per la milionesima volta a trent’anni, non può essere esente da una qualche responsabilità, il film è stravisto. E d’altro canto, se uno ha bisogno di capri espiatori, indubbia è la vocazione: quella del codardo).

 

Il punto è che pensare a Brescia-Atalanta, in questo preciso momento, mi fa tremare sul serio. Ma mi è appena venuto un pensiero, non contro Balotelli né contro Cellino. Un pensiero contro me stesso. Lo dico col cuore che sanguina mortalmente: e se fosse nascosta proprio in Brescia-Atalanta, la soluzione? Ci sono vittorie che solo provvisoriamente sono mascherate da sconfitte, in particolare le più inammissibili, le più brucianti. Vere e proprie Caporetto. Le chiamano – se non erro – tragedie necessarie.

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