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Cosa non va nella nuova Coppa Davis

Carlo Magnani

Tutte le nazioni si ritrovano riunite in una settimana a giocare, anche di notte, in un palazzetto anonimo di una grande metropoli. Così si viaggia verso il nichilismo

[Anticipiamo un articolo del numero del Foglio Sportivo in edicola domani e domenica. L'edizione di sabato 23 e domenica 24 novembre la potete scaricare qui dalle 23,30 di venerdì 22 novembre]

  


 

Cosa c’entra Carl Schmitt, il controverso filosofo del diritto, con la nuova Coppa Davis? Niente o forse tanto. Eppure, la sua opera più nota, di certo quella dalle qualità letterarie maggiori, cioè il Nomos della Terra, può tornare di qualche aiuto per la comprensione della riforma della competizione di tennis tra squadre nazionali più antica e prestigiosa. In questi giorni stiamo assistendo, nella fredda Caja Magica di Madrid, allo spettacolo della nuova formula della Coppa Davis. Qualcuno approva. Per altri dominano lo sgomento e lo spaesamento. Vedere tre partite tra Nazionali, due singolari e un doppio consumate nell’arco di un mezzo pomeriggio, decretare addirittura il vincitore dell’incontro, lascia l’aficionado con l’ansia. A tratti sembra il campionato di tennis dei circoli di fine anno. Il tempo è la prima vittima della riforma.

 

Il tennis vive una dimensione dilatata del tempo, concepito quasi fosse un rettilineo senza fine, mosso da qualche tornante. Di questa illimitatezza si nutre anche la Coppa Davis. O meglio, si nutriva. McEnroe, non proprio un pallettaro, anzi, nel 1982 fu inchiodato dal paziente Wilander in una lotta di sei ore e 22 minuti. L’eccezionale prestazione fu superata solo nel 2015 dall’argentino Leonardo Mayer che superò il brasiliano Joao Souza dopo sei ore e 43 minuti. Poi venne introdotto il tie break nel set finale. Ma il tempo che valeva nella Davis non era solo quello cronologico, pesava anche quello meteorologico. Qui fece scuola la scelta dell’Italia nel 1996, guidata da Adriano Panatta, che dovendo affrontare la Russia a febbraio optò per il Foro Italico scoperto, en plein air. Le armate italiane goderono dei favori del “generale inverno”, perché Kafelnikov, il più forte avversario che comunque vinse i due singolari, soffriva molto il freddo: e nel doppio cedette. Da allora fu proibito di giocare in sedi all’aperto in inverno.

 

Con questo caso possiamo entrare nella dimensione della nuova Coppa Davis che più fa riflettere. Quella dello spazio: e si incontra Carl Schmitt. La vecchia Davis, a ben guardare, era un capitolo della storia delle relazioni internazionali, un’appendice significativa della diplomazia e della politica estera degli stati. Concepita nella belle époque è stata figlia di quell’ordine giuridico e politico internazionale che Schmitt ha cristallizzato nella formula dello jus publicum europaeum. Tale ordine si era affermato con il Trattato di Westfalia che nel 1648 aveva messo fine alla Guerra dei Trent’anni. L’Europa aveva scelto la pace e ripudiato il conflitto civile religioso: il meraviglioso strumento di questa operazione era la machina machinarum dello stato sovrano. Questo ordine, dice Schmitt, perdura sino al 1914 ed entra in crisi definitiva con il secondo conflitto mondiale. Il suo tratto saliente era il diritto degli stati al reciproco riconoscimento, che comprendeva anche la legittima pretesa di farsi la guerra, jus ad bellum, purché fosse rispettato il connesso jus in bello. Ecco, nelle delegazioni di tennisti che viaggiavano da un paese all’altro, ospiti a seconda se il precedente match tra le due nazioni sorteggiate era stato disputato in casa o meno, nelle presentazioni ufficiali alla stampa, soprattutto nella scelta del tipo di superficie e sede in cui giocare si esprimeva un ordine del conflitto. Non mancavano poi boicottaggi, il provvedimento più grave perché negava la legittimità dell’avversario. Il tennis, come la politica e il diritto, aveva un radicamento spaziale preciso.

 

Con la nuova formula tutto ciò è andato smarrito. Il tennis si dimostra ancora una volta in grado di anticipare le altre discipline: come per la revisione delle decisioni arbitrali, una sorta di spoliticizzata corte costituzionale meccanica; e per la portata innovativa, stravolgente, che ha avuto sul gioco la tecnologia, intesa proprio come costituzione dei materiali. Oggi presenta il primo caso di globalizzazione sportiva compiuta. Tutte le nazioni si ritrovano riunite in una settimana a giocare, anche di notte, in un palazzetto anonimo di una grande metropoli. Addio regole, addio lettere diplomatiche da consegnare allo stato riconosciuto come “giusto nemico”. A decidere c’è un’organizzazione ormai senza tempo e senza spazio. Si marcia così verso quel nichilismo la cui essenza, dice Schmitt, è “la radicale separazione tra ordinamento e localizzazione nello spazio”. Il tennis del non-luogo. Era necessario? O avrebbe avuto ancora senso far giocare i tennisti robot con le regole del vecchio mondo?

 


 

Ricercatore di Diritto pubblico a Urbino, Carlo Magnani ha scritto “Filosofia del tennis. Profilo ideologico del tennis moderno

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