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Il Foglio sportivo

Dove andiamo quando corriamo

Mauro Berruto

Fatica, disciplina, benessere, sfida, resilienza, ma soprattutto libertà. Indagine filosofica su che cosa spinge un runner a indossare le scarpe da corsa e macinare chilometri di strada

Correre, contro chi?

Che cosa hanno in comune Eliud Kipchoge nato in Kenya nel 1984 e Shizō Kanakuri venuto alla luce in Giappone, quasi cento anni prima, nel 1891? Poco, si direbbe. Anche perché, pur essendo entrambi maratoneti, se collocati su un ipotetico piano cartesiano della prestazione nella gara più affascinante del podismo, sarebbero ai due punti estremi. Kipchoge è stato il primo uomo nella storia capace di correre i mitici 42,195 chilometri in meno di due ore, grazie a una preparazione super-scientifica, a un bel numero di lepri e a una struttura organizzativa di straordinaria efficacia, ma soprattutto grazie alle sue gambe, ai suoi polmoni, a una sconfinata volontà e un cuore immenso. Kanakuri era un maestro di scuola, mandato a rappresentare il paese del Sol Levante ai Giochi Olimpici di Stoccolma, 1912. Rappresentava la metà della delegazione, visto che erano solo in due gli atleti giapponesi in gara. Uno era un ginnasta, l’altro era lui che aveva anche la reale possibilità di ben figurare in quella prestigiosa gara, tanto da convincere i suoi concittadini a fare quello che oggi si chiamerebbe crowfounding, una colletta per raccogliere il denaro necessario a finanziare la spedizione. Durante la gara era in ottima posizione quando, al trentesimo km, sparì letteralmente dalla circolazione dopo essersi addormentato, sfinito dalla stanchezza e ristorato dal fresco succo di mirtillo offertogli da un gentile spettatore svedese nel giardino della sua casa che si affacciava sul percorso.

  

La polizia svedese lo registrò fra le persone scomparse, il Giappone ne perse le tracce. Travolto dalla vergogna si fece rispettosamente da parte e venne ritrovato soltanto nel 1962 a Tamana, prefettura di Kumamoto, il suo villaggio natale, dove era diventato padre di sei figli e nonno di dieci nipoti. Lo scovò, in quel nido dove aveva trovato rifugio, una troupe giornalistica svedese in cerca di storie per celebrare il cinquantesimo anniversario dell’edizione dei Giochi di Stoccolma. Dopo quel sonnellino ristoratore che gli aveva capovolto la vita, aveva deciso di destinare il resto dei suoi giorni alla professione di maestro di Geografia. Lo convinsero, nel 1967, a tornare nel paese di Sollentuna, in Svezia, dove c’era da finire un lavoro. Il settuagenario Shizō accettò e ripartì dal punto dove si era addormentato, concludendo la Maratona nell’imbattibile tempo di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti 20 secondi e 3 decimi. Nello spread fra le prestazioni di Kipchoge e Kanakura c’è tutta la filosofia del correre. Il nero e il bianco, lo yin e yang, la notte e il giorno, i due opposti che, tuttavia, hanno radice l’uno nell’altro e che non potrebbero esistere senza quella reciproca relazione. In quello spazio che separa la migliore dalla peggior prestazione della storia sulla distanza della Maratona c’è proprio tutto: la competizione contro l’avversario, contro il tempo, contro la distanza. Che poi, alla fine, è sempre e soltanto una competizione contro se stessi.

 
Correre, perché?

Un altro giapponese decisamente famoso, ma per altri motivi, fa della corsa una ragione di benessere e di metodo. Lo scrittore Haruki Murakami corre per terapia, combattendo in questo modo la sedentaria vita dell’intellettuale e per allenare la capacità di mantenere un ritmo (evidentemente affine al ritmo narrativo dei suoi romanzi) adattandosi a quelle tabelle di allenamento che hanno la loro ragion d’essere in un obiettivo a lungo termine. Murakami corre per costringere il suo corpo e la sua mente a mettersi di fronte a momenti di difficoltà e a superarli. Correre gli è necessario per scrivere, e viceversa. Questo tema della disciplina, cifra di ogni runner amatore o professionista che sia, ricorda a Luca Grion, professore associato di Filosofia morale e autore di La filosofia del running (Mimesis, 2019), un’intuizione di Tommaso d’Aquino: il teologo domenicano, uomo peraltro descritto dai suoi biografi come decisamente fuori forma (tanto da essere costretto a far sagomare il suo tavolo da lavoro a causa di un girovita importante) insegnava che essere liberi non significa semplicemente fare ciò che si desidera, ma soprattutto saper sopportare la fatica che sempre accompagna la ricerca di quella stessa libertà. Quello sforzo, che quando esiste ridefinisce il senso stesso di vittoria e permette di scoprire vittorie anche in quelle che a prima vista sembrano sconfitte, determina il legame tra la libertà e le regole: “La prima cresce grazie alle seconde e queste ultime trovano senso in riferimento alla loro capacità di liberare le nostre potenzialità migliori – scrive il filosofo-runner Grion – e tutto questo il maratoneta lo sa bene: si può sperare di raggiungere il risultato che liberamente si è scelto di perseguire solo abbracciando uno stile di vita disciplinato, capace, cioè, di trovare un ordine di priorità rispetto ai tanti beni che calamitano il nostro desiderio”. Se si pensa proprio all’importanza delle tabelle di allenamento, splendida ossessione di ogni podista che si rispetti, ai rigori auto-imposti nello stile di vita o nella dieta, emerge con evidenza che la piena libertà, ovvero fare ciò che si vuole e raggiungere il risultato auspicato, non può che passare attraverso il fatto che… non si potrà fare tutto ciò che si vuole! Chi obbliga un runner a uscire per allenarsi alle 6 di mattina in pieno inverno, fare una doccia e presentarsi puntuale in ufficio? Chi lo costringe a rinunciare a un’ottima colazione, al cappuccino e al cornetto alla crema? Chi gli impone quelle difficoltà e quei sacrifici se non il desiderio della piena libertà di potersele scegliere?

 


  Illustrazione di Margherita Barrera


 

Correre, dunque, perché? Perché la fatica è una medicina. Gratuita, universale e alla portata di tutti. E perché la fatica, prima di tutto quella autoimposta, offre in cambio libertà.

 

Correre, dove?

Nei paesi scandinavi si sono inventati una disciplina che la letteratura scientifica dimostra essere un efficace modo per prendersi cura della propria salute, sia fisica che mentale. Si chiama nordic walking è un’attività da fare all’aria aperta, una sorta di camminata veloce che è diventato il principale strumento di prevenzione e controllo di alcune patologie quali il diabete o le disfunzioni cardiovascolari, ma funziona egregiamente anche come antidepressivo. Unica controindicazione: per almeno 6-7 mesi all’anno per evidenti ragioni di latitudine quell’attività si svolge, Finlandia, Norvegia o Svezia che sia, al buio e spesso sottozero. Perché, dunque, invece di lamentarci (e costruirci alibi) non prendere esempio, valorizzando quelli che sono i punti di forza del nostro paese? Il nostro clima, il nostro territorio, i nostri parchi, colline, montagne, laghi, mari, spiagge, le nostre città d’arte non possono essere una meravigliosa scenografia per l’esercizio dell’arte del camminare (veloce) o del correre? Non sarebbe questa abitudine una cosa preziosa da insegnare ai nostri giovani per accompagnarli verso una, letterale, cultura del movimento? Correre è un atto politico almeno per due ragioni: la prima legata all’idea di riappropriarsi della polis, quel pezzo di mondo nel quale viviamo e che ci è stato affidato. La seconda ragione? Allenarci a quella cultura del movimento, strumento privilegiato per modificare il proprio stile di vita e pesare di meno sulla bilancia, ma soprattutto sul Sistema Sanitario Nazionale. La cultura del movimento, che l’amore per la corsa insegna, è un diritto, ma è anche un dovere civico, perché quella capacità di generare risparmio al Servizio Sanitario Nazionale è l’unica via per permettergli di restare in vita così come definito nell’articolo 32 della nostra Costituzione, quello che tutela il nostro diritto alla salute come gratuito e universalistico. Correre, in poche parole, è un’azione non solo più a favore del proprio benessere, ma anche di quello della propria comunità. Un gesto individuale, talvolta testardo e solitario, che diventa un dono.

 

Correre, ma un po’ più piano

L’apoteosi dell’esercizio alla disciplina sta nella marcia. Non è certamente un downgrade della corsa, ma una corsa frenata, intrappolata in un senso del dovere e delle regole al limite dell’autolesionismo. Se correre è un gesto universale, marciare sembra essere un’azione contro natura, fachirica. Ne volete un testimonial perfetto? Shaul Laudany, ingegnere-atleta israeliano, oggi ottuagenario. Sopravvissuto a un campo di concentramento, poi alla strage conseguente all’azione terroristica di Settembre Nero ai Giochi Olimpici di Monaco 1972, poi alla Guerra dei Sei Giorni e ancora a quella di Yom Kippur, non ha mai smesso di marciare, neppure nei momenti più devastanti della sua vita. Shaul Ladany, ingegnere sì, ma due volte olimpionico, ha sempre trovato in quell’agonia (nel senso etimologico del termine, quell’agón che tiene insieme dolore, fatica e competizione) la ragione per tornare alla vita. A spingerlo è un’infinita, inesauribile forza di volontà che ridefinisce i concetti di resistenza grazie alla sua storia di atleta e di uomo che sempre ha marciato e guardato in una sola direzione: avanti. È impressionante come un essere umano che porta su di sé i segni così profondi della storia, a più di ottanta anni non viva in nessun’altra dimensione che non sia il futuro. Shaul Ladany che non ha mai avuto un allenatore, ha fatto tutto da solo, grazie a un punto di forza che ha un nome preciso: resilienza. D’altronde, come dice lui: “I dolori ti passano in una settimana, la soddisfazione di essere arrivato al traguardo ti rimane per tutta la vita”.

  

Ancora oggi festeggia il giorno del suo genetliaco percorrendo il numero di chilometri degli anni che compie. Ogni anno, un chilometro in più.

 

Finalmente liberi!

Marciare o correre. Farlo per vincere o per sopravvivere. Farlo in modo veloce o lentamente. Contro un avversario o contro se stessi. Non importa. Quello che importa è che la strada sia più importante del traguardo e che sia il cammino (o la corsa) a dare un senso alla propria meta. Lo dimostra il sorriso di Kipchoge dopo una prestazione oltre l’umano, quello di Kanakuri quando tagliò il suo traguardo 54 anni dopo il dovuto, quello di Murakami quando racconta di cosa significhi per lui essere un runner. E lo dimostrano anche tutti i marciatori, Ladany compreso, che una volta tagliato il traguardo, sono talmente contenti che… si mettono a correre, finalmente liberi!

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