A pugni con il mondo. La boxe di Ramla Ali tra guerre civili e islam

La boxer qualificandosi per Tokyo 2020 può diventare la prima pugile somala a partecipare a un'Olimpiade

Giorgio Coluccia

Il lieto fine è un pass olimpico. Ramla Ali proverà a qualificarsi per Tokyo 2020 per diventare la prima pugile somala a partecipare a un'Olimpiade. Ma questo è soltanto l’ultimo tratto di un lungo percorso partito dalla Somalia, in quel paese che non conosce pace dal 1986, da quando con la rivolta contro il regime di Siad Barre è iniziata una guerra civile che ha causato oltre mezzo milione di morti in 33 anni.

 

La vicenda di Ramla sboccia dalle macerie, dalla fuga con la famiglia da una Mogadiscio dilaniata, dopo che una bomba ha sfiorato la loro casa, uccidendo il fratello di soli 12 anni. Nove lunghi giorni in mare per raggiungere il Kenya, un'attesa estenuante a Nairobi prima del via libera per Londra, come rifugiati di guerra.

 

“Mi sono innamorata della boxe per puro caso” ha dichiarato la pugile ventiseienne. “L'ho scoperta quando mi sono iscritta in palestra perché a scuola rispetto alle altre mi vedevo molto grassa. Avevo 13 anni, ho deciso di provarci e da lì non ho più smesso”. Quattro anni fa ha vinto il primo titolo nazionale con l'Inghilterra, l'anno dopo si è ripetuta trionfando ai Great British Championship e infine nel 2017 ha deciso di rappresentare il suo Paese, iscrivendosi a una federazione che la Somalia non ha mai avuto e che lei stessa ha contribuito a creare. Lo sport è uno dei tanti sogni spezzati dalla guerra, a Rio 2016 gli atleti in gara sotto la bandiera somala erano soltanto due, così come a Londra, a Pechino, ad Atene. La boxe di Ramla nasce come valvola di sfogo, si trasforma in volontà di combattere con l’avversario che hai davanti, ma anche contro tutte le avversità della vita. “Questo sport rende tutti uguali” ha dichiarato l’atleta africana. “Il primo match l’ho affrontato solo a 18 anni, prima era soltanto divertimento, tenersi in forma, acquisire fiducia e magari fare nuovi amici. Ora vado sul ring e mi isolo da tutti, ascolto solo le parole del mio coach. È una strana sensazione perché avverti il frastuono del pubblico, ma ti sembra di essere in un tunnel, in una bolla dove hai di fronte soltanto l’avversario. Ti ritrovi uno contro l’altro e il resto non conta più nulla”.

 

 

La perseveranza e il desiderio di andare oltre non si esauriscono con la fine di un incontro, la lotta di Ramla Ali si spinge verso nuove frontiere, come dimostra la scelta di rappresentare la Somalia, la sua bandiera, il suo popolo e non affiliarsi a federazioni estere, sulla falsariga degli atleti somali più noti: dal maratoneta britannico Mo Farah al mezzofondista belga Bashir Abdi.

  

Come se non bastasse Ramla Ali all'inizio ha dovuto nascondere la sua ambizione dagli occhi dei suoi genitori, ferventi musulmani. L'avessero saputo le avrebbero impedito di salire sul ring, di combattere senza velo, come raccontato dalla stessa Ramla: “Un giorno sono tornata dagli allenamenti e mi aspettavano seduti attorno a un tavolo, con altri parenti. Mi dissero che dovevo fermarmi, non potevo mostrare la mia pelle, che una donna musulmana non doveva praticare la boxe, perché sport da uomini”. La sua astinenza dal ring è durata sei mesi, poi non ha resistito ed è tornata ad allenarsi di nascosto, a volte anche indossando in casa cappelli o occhiali da sole, per coprire i lividi dei colpi incassati in allenamento. Fino a quando il clamore per il titolo nazionale l'ha riportata alla ribalta, alcuni dei suoi parenti l'hanno vista in tv, prima sferrare pugni e poi piangere di gioia per il trionfo.

  

Ora tutti i martedì a Vauxhall, nella periferia sud di Londra, tiene dei corsi e insegna alle giovani donne musulmane mosse di autodifesa. Nel frattempo la Nike le ha offerto un ricco contratto di sponsorizzazione, ha sposato il suo coach Richard Moore e qualche tempo fa l'ha chiamata Meghan Markle, la moglie del principe Harry, dopo averla scelta per la copertina di settembre di Vogue Uk.

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