La paura vincente di Rafa Nadal

Lo spagnolo conquista per la quarta volta gli Us Open battendo in finale il russo Medvedev. Al termine di una finale massacrante, contro un avversario molto più giovane

Giorgia Mecca

È stata la paura a dare a Rafa Nadal la forza di reggersi in piedi per 4 ore e 51 minuti di partita. All'età di 33 anni, nove anni dopo il suo primo successo a New York, il giocatore spagnolo numero due del mondo ha conquistato per la quarta volta gli Us Open, il diciannovesimo titolo del Grande Slam della sua carriera, vincendo in finale contro il tennista russo Daniil Medvedev 7-5 6-3 5-7 4-6 6-4. 

 

Quando si è reso conto di avere vinto, Nadal si è sdraiato a terra e più che sollievo il suo corpo mostrava i segni della sofferenza: occhi chiusi, denti stretti, gambe paralizzate. Soltanto qualche minuto dopo, mentre il maxischermo dell’Artur Ashe ha mandato in onda le immagini di tutte le sue vittorie, i baci e i morsi alle coppe, i match point conquistati, Wimbledon, Melbourne, Parigi, Federer e Djokovic, gli abbracci e le mani sul cuore, lo spagnolo si è concesso lacrime di gioia e di commozione. 

 

 

Che fatica, però. All’inizio della terza partita, Medvedev, sotto di due set a zero, ha cominciato a prepararsi nella testa il discorso da pronunciare alla fine. Pensava che nel giro di venti minuti sarebbe stato fuori dal campo, voleva trovare parole originali con cui ringraziare il pubblico. È bastato un doppio fallo del suo avversario per convincerlo a rimanere in piedi, a non lasciare scivolare via la prima finale Slam della sua vita. La fiducia di Nadal si è trasformata in terrore, in stanchezza, in ossigeno per il giocatore russo che si è aggrappato alla fatica del suo avversario per trovare la forza di reagire e cominciare a correre più veloce di prima. È una questione di secondi e di dettagli, un errore gratuito, un rovescio fuori di nulla ma comunque fuori, un attimo di ritardo sulla pallina; è così che si ribaltano le partite e i preparativi per i festeggiamenti vengono sospesi.

 

 

Da due set a zero a due set pari, Nadal alle otto di sera non ne può più: suda ghiaccio, i muscoli delle sue gambe sono diventati pezzi di legno, minacciano crampi. Lo spagnolo stringe i pugni e grida "vamos" per ricordare a se stesso di essere ancora vivo e ancora in piedi, ma le sue urla sono uno spreco di energia che non può proprio permettersi. All’inizio del quinto set tutto il tennis conosciuto fino a quel momento non basta più, è il passato, non serve a niente. Dopo quattro ore di partita, per continuare a giocare serve qualcosa di più: adrenalina, agonismo, paura, la poca resistenza rimasta a disposizione, ostinazione, e tutti quei tic da maniaco che gli servono per liberare la mente e cercare di non impazzire. Ogni volta che la pallina si allontana dalla propria metà campo, lo spagnolo fa un sospiro di sollievo, ma è una sensazione momentanea, Medvedev rimanda indietro tutto, a servizi angolati risponde con rovesci all’incrocio tra le righe. Quanti chilometri, quante rincorse, quante occasioni sprecate e dall’altra parte della rete un avversario impassibile che non ha niente da vincere e proprio per questo non ha nulla da perdere. Non è stato un quinto set, è stato un massacro, tra punti di ventotto colpi ciascuno, la rete cercata come un’ancora di salvezza, palle break da salvare, due championships point non sfruttati, un vantaggio di 5 a 2 che non tranquillizza per niente se dall’altra parte della rete c’è un avversario di ventitré anni che è molto meno stanco e impaurito di te. La paura lo ha tenuto in piedi e gli ha fatto dimenticare i crampi, la vecchiaia, l’avversario, quanto male gli farà la schiena nei prossimi giorni. 

  

Con questa vittoria Nadal guarda da vicino Roger Federer e i suoi 20 Slam conquistati in carriera. I due giocatori non sono eterni, la loro rivalità non è ancora finita. 

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