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La rieducazione dei tifosi e la nuova Champions

Jack O'Malley

Caccia alle streghe sugli spalti di mezza Europa. Quest’anno la coppa la alziamo di nuovo noi

Forse non saremo ingordi come nella stagione passata, non porteremo quattro squadre su quattro nelle due finali di coppe europee, forse non le vinceremo entrambe, ma – segnatevelo – un trofeo lo porteremo a casa. Parlo di noi inglesi, of course. Che insegniamo calcio anche quando abbiamo le squadre imbottite di portoghesi, come il Wolverhampton. Una tra Manchester City, Tottenham, Liverpool, Chelsea, Arsenal Manchester United e – appunto – Wolves, alzerà un trofeo a maggio (poi c’è l’Europeo itinerante, con la finale a Wembley, scenario perfetto per arrivare secondi con la Nazionale, magari perdendo ai rigori contro la Francia.

 

Mi consolerò brindando alla profezia di Casey Stoney. L’allenatrice del Manchester United femminile (già, ancora non si sono ripresi dall’addio di Ferguson, da quelle parti) ha detto che non vedrà mai una donna allenatrice di una squadra di calcio maschile in tutta la sua vita. La Stoney ha 37 anni, e questo mi ha tranquillizzato. La colpa, spiega l’ex calciatrice della Nazionale inglese femminile, è naturalmente della società maschilista, patriarcale e retrograda inglese. “La società non è pronta” a una cosa del genere, anche perché in caso di sconfitta di una squadra allenata da una donna tutti diranno che è colpa del fatto che è una donna. Osservazioni lapalissiane a parte, la Stoney la butta sulla pressione che un coach al femminile sentirebbe su di sé, dimenticando che nel nuovo mondo del calcio politicamente corretto quasi nessuno oserebbe addossare a una donna colpe specifiche per una sconfitta, pena la gogna pubblica e l’accusa di sessismo. Ci avete fatto caso? Quando si tratta di categorie protette dal discorso mainstream è impossibile entrare nel merito. O meglio: l’atteggiamento è sempre positivo a priori. Il calcio femminile non è più lento e noioso, ma più genuino e portatore di valori positivi. I valori, già.

 

Da quando il calcio ha sostituito l’educazione scolastica le società si preoccupano quasi esclusivamente di esportare quelli. A costo di rebrandizzarsi, cancellare il proprio passato, insegnare nuovi cori ai tifosi e trasformare chi va allo stadio in guardiano del proprio fratello di fede. Chiaro che poi qualcuno esca di testa quando una curva – è successo in Francia, durante la partita tra Nizza e Marsiglia – fa cori e srotola striscioni con slogan antigay: match sospeso, squadre negli spogliatoi e partita che riprende dopo 10 minuti. Segnalo le parole di Wylan Cyprien: “Sono contro tutte le discriminazioni, ma interrompere la partita per una cosa così non ha senso”, il succo del discorso del giocatore del Nizza, che si è dimentica di aggiungere “ho molti amici gay”.

 

Non se ne esce, e in attesa della rieducazione coatta del popolo degli stadi ci si può solo indignare sui social, ergendosi giudici del bene e del male, decidendo noi con un hashtag quali coreografie si possono fare e quali non fare, quali morti si possono ricordare e quali no, persino quali sciarpe si possono indossare: ho fatto l’errore di seguire molti profili italiani su Twitter, e qualche giorno fa ho assistito alla gogna social di un tifoso del Parma – reo di avere una sciarpa con su scritta una tipica espressione dialettale delle sue parti, “ch’t vèna un cancor”– con richieste di Daspo fatte taggando direttamente la società e la Lega Serie A, delazioni (“lo avevo già visto in un’altra trasferta!”), patenti di tifo e di umanità date via smartphone e indignazione facile che fa sentire a posto con la propria coscienza. Disperante, ma almeno la Champions la vincerà un’inglese.

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