Sul ring nessuna pietà

Marco Ballestracci

Il cervello e il cuore di Gene Tunney, che lasciò la boxe da campione

Con la testa avvolta nell’asciugamano pensava a sua madre e sorrideva. Era certo che fosse incredula. Nonostante lei pregasse col fervore più grande San Patrizio, non avrebbe lontanamente immaginato che il Santo la potesse ascoltare così tanto. Gene non solo aveva domato in palestra la sua maledetta indole irlandese d’attaccabrighe, ed era già un miracolo che meritava l’accensione d’una candela ogni domenica, ma adesso era il campione del mondo di tutte le categorie.

 

Mentre il massaggiatore gli frizionava le spalle era certo che sua madre, in quel preciso istante, si stesse chiedendo che cosa avesse fatto per meritarsi una benedizione tanto grande. Gene era diventato milionario a forza di pugni, aveva battuto l’invincibile Jack Dempsey e adesso aveva sposato la nipote di George Lauder, diventando così il cugino di Andrew Carnegie. Persino nel Bronx sapevano che tutto l’acciaio d’America apparteneva ai Carnegie e ai Lauder. Gene sorrideva sotto all’asciugamano e la pensava incredula osservare il quadretto del vecchio santo che ora aveva appeso in salotto, quando s’era trasferita nella grande casa vicino all’Astoria Park che le aveva comprato dopo la vittoria nel primo incontro con Dempsey. Però per lui era diverso. Non c’erano preghiere e ricompense di santi irlandesi. Quella era la sua vita.

 

Ottantatré incontri da professionista in dodici anni. Quattro pareggi e una sconfitta contro il grande Harry Greb, che poi però era riuscito a battere quattro volte. Poi, nel 1926, aveva tolto il titolo a Jack Dempsey, il “Massacratore di Manassas”, l’Invincibile. Dempsey però non era il bruto che raccontavano, se lo fosse stato non sarebbe diventato il campione del mondo di tutte le categorie, perché non si sta seduti sopra al mondo se non si ha cervello. L’aveva dimostrato quando gli avevano offerto cinquanta milioni di dollari per tornare sul ring. “Non ci penso neanche. Ho abbastanza soldi per vivere bene finché arriverà la mia ora e son già contento che dopo tredici anni di combattimenti posso ancora andare in giro sulle mie gambe e chiacchierare con la gente”.

 

Anche per Gene i soldi erano l’ultimo dei problemi, ma amava salire sul ring per l’odore della vaselina e per l’incomparabile gusto della scherma umana che solo il pugilato possedeva. Poi c’erano le facce dei suoi avversari: gente saltata fuori da una spietata selezione naturale che ne aveva segnato l’espressione del viso. Come Tom Heeney che ora aveva di fronte tra le urla di 45mila spettatori. Non importava se sui documenti era scritto che era neozelandese, aveva l’espressione dell’irlandese disperato che avrebbe fatto di tutto pur di batterlo o rimanere in piedi fino alla fine. Conosceva bene quella faccia perché era uguale alla sua quando s’era arruolato in Marina e aveva iniziato a boxare in Europa per divertire i soldati. Ma nonostante la spigolosità dello sguardo, alla settima ripresa Heeney aveva cominciato ad ammorbidirsi. Tunney conosceva bene quella sensazione: il pugno affondava un po’ di più nel corpo dell’avversario ed era il primo segnale che il combattimento si sarebbe concluso prima del limite.

 

Tutto capitò alla fine del decimo round. Heeney s’era appoggiato alle corde, sfinito dai colpi e dal ritmo del campione. Tunney lo colpì con tre sinistri consecutivi che lo fecero sobbalzare al centro del ring e poi l’atterrò con una sventola di destro, dall’alto verso il basso, alla mandibola. L’arbitro non iniziò neppure il conteggio perché il gong chiuse immediatamente la ripresa. Allora accadde qualcosa d’inaudito.

 

Tunney fece chiamare l’arbitro. “Signor Forbes, Heeney ha l’occhio sinistro ferito. Se lo picchio per davvero lo faccio diventare cieco. Faccia finire l’incontro signor Forbes. E’ meglio”.

 

L’undicesima ripresa fu persino peggiore della decima. Tunney picchiava con tutte e due le mani e l’avversario cercava in tutti i modi di rimanere in piedi sul filo del KO tecnico. Ciò nonostante il campione evitava di colpire l’occhio sinistro dello sfidante: l’incontro era vinto e non aveva alcuna intenzione di ridurlo a un invalido. Quando l’avversario stremato l’agganciava in clinch Tunney gli sussurrava in un orecchio: “Alza il braccio. Alza il braccio. Ritirati, sennò mi tocca ammazzarti”. Ma Heeney non sentiva o non voleva sentire. Aveva fatto voto di finire l’incontro in piedi. “Cristo Heeney, ti rovino la vita Henney. Alza quel braccio!”. Invece l’irlandese, ogni volta che l’arbitro riusciva a districare il clinch, continuava ad avanzare e la gente ne vedeva la testa sobbalzare centrata dalle combinazioni di Tunney in arretramento. Il campione però continuava ad evitare di colpire l’occhio sinistro, ormai così infiammato da sembrare sul punto di schizzare fuori dall’orbita.

 

Fu quando mancavano venti secondi alla fine della ripresa che, cogliendo l’arbitro a pochi centimetri da lui, Tunney gli si rivolse in un fiato: “Arbitro. O sospendi o mi ritiro io!”. Il signor Forbes si sentì gelare il sangue.

 

Dieci secondi dopo, nel mezzo d’una nuova serie di colpi che martoriavano il viso dello sfidante, l’arbitro osservò con la coda dell’occhio Tunney e gli scoprì l’espressione infastidita dal massacro, perciò prima che si verificasse il più clamoroso degli epiloghi, eslamò: “Stop! L’incontro è finito”.

 

Cinque giorni dopo – il 31 luglio 1928 – Gene Tunney convocò i giornalisti all’Hotel Lincoln. Arrivò all’appuntamento accompagnato dalla moglie e da Billy Gibson, il suo manager. Durante l’aperitivo fu gioviale, ma quando i cronisti si sedettero scandì la reale ragione per cui li aveva invitati: “Non ci sono in questo momento degli sfidanti che possono invogliare un grande pubblico ad assistere a un incontro che vale per il titolo. Se ci fossero li aspetterei per affrontarli sul ring, così da ritardare il mio ritiro, ma sembra che ci vogliano due o tre anni prima che si presenti uno sfidante pericoloso e, francamente, due o tre anni d’attesa per me sono troppi. Perciò sono qui per dirvi che il combattimento di cinque giorni fa contro Tom Heeney è stato il mio ultimo incontro”.

 

Sorrise alla moglie che gli sedeva accanto. “Oggi comincio una nuova vita”.

 

Per tutti l’addio alla boxe di Gene Tunney fu una questione di qualche minuto di conferenza stampa, tranne che per Polly e il suo manager che conoscevano la vera ragione dell’abbandono e il momento in cui era maturata la decisione. Nessuno all’infuori della moglie e di Gibson erano presenti nello spogliatoio dello Yankee Stadium quando, due ore dopo la fine del match, il campione del mondo s’era alzato dalla panca, aveva preso il cappello, l’aveva riassettato e, prima d’uscire dalla stanza, aveva detto con una smorfia di disappunto: “Oggi ho avuto pietà di Heeney. All’undicesima ripresa avrei potuto finirlo, ma non l’ho fatto”.

 

Le parole avevano l’intensità dei colpi che decidevano un incontro.

 

“Se un pugile ha pietà dell’avversario e non lo spedisce fuori combattimento significa che è arrivato il momento che si ritiri dalla boxe. Non c’è da aspettare”.

 

Polly e Gibson attesero l’istante successivo, quello che cambiava l’esistenza di ciascuno di loro.

 

“Credo proprio che per me quel momento sia arrivato”.

 

Il campione del mondo di tutte le categorie lanciò un’ultima occhiata allo spogliatoio, spense la luce e chiuse la porta dello stanzone.

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