Il pallone in provincia e l'orgoglio di essere la Sambenedettese

Nicola Imberti

I tifosi, i grandi portieri degli anni Ottanta e Novanta, le sconfitte e le rinascite. La Samb è un pezzo di storia dello sport italiano. E ora, con Paolo Montero in panchina, vuole la Serie B 

“È calcio, non c’è mistero”. Paolo Montero scruta la platea quasi alla ricerca di un segno di approvazione. Una conferma che quella frase, pronunciata con l’atteggiamento tipico dei bambini che non conoscono ancora l’arte dell’inganno, descrive una verità acclarata, condivisa. E probabilmente sarebbe così se il calcio giocato non finisse quotidianamente sullo sfondo oscurato da procuratori voraci, complotti veri e presunti, e da quella cultura del sospetto che sembra aver ormai avvelenato ogni ambito della nostra quotidianità.

Tutte cose che a Montero già non interessavano quando, con la maglia dell’Atalanta e soprattutto della Juventus, si fece apprezzare come difensore a cavallo tra gli anni Novanta e 2000. “È un galeotto mancato, ma con un suo codice d’onore”, disse di lui Carlo Ancelotti riassumendo in un’immagine la cattiveria calcistica e un carattere difficile da domare. Insomma, per uno così il calcio è materia semplice fatta di sudore, allenamenti, intensità mentale, bel gioco e concretezza. Non c’è mistero.

Nemmeno sulla trattativa che lo ha portato a essere il nuovo tecnico della Sambenedettese Calcio. “Non c’è stata trattativa, ho detto subito di sì”, ha raccontato presentandosi ufficialmente ai giornalisti e ai tifosi lo scorso 6 luglio. E di sicuro, al di là della fede juventina del presidente Franco Fedeli, non è un caso che Montero abbia scelto questo spicchio di costa adriatica per il suo esordio da allenatore in Italia.

Un pezzo di provincia italiana che da 96 anni, nonostante vittorie e sconfitte, alti e bassi societari, fallimenti e rinascite, mantiene intatta la sua passione per il calcio e per i colori rossoblù.

 

 

Una storia che si tramanda di padre in figlio e che, come spesso accade, vive di figure eroiche, luoghi e racconti epici.
Le prime, solo a nominarle, richiamano alla memoria le pagine degli almanacchi del calcio. Dalla Sambenedettese sono passati, per citarne alcuni, Nedo Sonetti, Walter Zenga, Luigi Cagni, Stefano Borgonovo, Zibì Boniek, Franco Causio, Stefano Tacconi, Enrico Annoni, Francesco Turrini, Roberto Tancredi, Fabrizio Ferron, Franco Colomba, Francesco Guidolin, Marino Bergamasco (storico collaboratore di Nereo Rocco), due generazioni di Chimenti con il padre Francesco e il figlio Antonio. Allenatori, giocatori, soprattutto grandi portieri. Perché, come ricorda un’ex gloria rossoblù, Bruno Ranieri, c’è stato un tempo in cui la Sambenedettese è stata scuola di calcio e “tante società di serie A mandavano i loro giovani a crescere qui. Noi più anzianotti ce li prendevamo a cuore e poi, dopo una o due stagioni, tornavano nella squadra di provenienza o andavano altrove”. Zenga, per esempio, arrivò a San Benedetto nel 1980, contribuì alla promozione in Serie B e, poi, nel 1982, tornò all’Inter.

 

  

Ad allenarlo Piero Persico. Bergamasco, dodicesimo di 14 figli in una famiglia di agricoltori, l’unico che, ci racconta il figlio Massimo che ha seguito le sue orme prima come portiere poi come allenatore di portieri, “ebbe la libertà di cercare fortuna nel mondo del calcio”. “Dopotutto – prosegue – mi raccontava sempre che da piccolo, quando lavorava in campagna e gli capitava di trasportare i sacchi di patate, se li faceva lanciare e lui li afferrava come se stesse parando”. Da portiere Persico aveva giocato a San Benedetto agli inizi degli anni Cinquanta. Nel suo curriculum anche Atalanta, Cagliari, Spal e, soprattutto, Reggina. È lì che aveva iniziato la carriera da allenatore e aveva conosciuto lo stopper Nedo Sonetti. I due si ritroveranno anni dopo proprio sulla panchina rossoblù. Siamo negli anni Ottanta. La Sambenedettese milita stabilmente in Serie B. “Ho conosciuto Piero a Reggio Calabria – racconta Ranieri – avevo 16 anni. Poi ci siamo ritrovati a San Benedetto. Era un ‘pezzo di pane’. Un vero padre. Faceva da cuscinetto tra noi giocatori e l’allenatore, cercava di mediare quando c’erano delle situazioni di tensione”. Tra le mani di Persico sono passati portieri poi diventati protagonisti del calcio italiano. Da lui hanno imparato la tecnica ma, soprattutto, una mentalità. Al termine della carriera si fermò a San Benedetto dove nel frattempo aveva aperto un hotel. Da lì ha continuato a dare consigli ai dirigenti e ai “suoi” portieri. “Il problema vero – raccontava nel 1993 intervistato da Repubblica – è che per giocare in porta ci vuole una testa fatta in un certo modo. E non sto parlando di follia: il portiere matto, quello è una favola. Un numero uno oggi deve essere un computer, che seleziona e sceglie. Ci sono due tipi di portieri. Quelli che prima agiscono e poi si chiedono: cosa ho fatto? e quelli che prima si chiedono: cosa faccio? e poi raccolgono il pallone dentro la porta”. Massimo ama definirlo “un uomo in frack”, come quello della canzone di Domenico Modugno, “umile ma con una sua eleganza. Il ricordo più bello che ho di lui è quando venne a trovarmi dopo la morte di mio figlio. Lo vidi, gli andai incontro, ci guardammo e ci abbracciamo, senza dire una parola”. Viene alla memoria l’abbraccio che Rembrandt ha eternato nel suo Ritorno del figliol prodigo. Nessuna parola da aggiungere, nessun mistero.

 

 

E non c’è mistero nemmeno nella figura epica di Ferruccio Zoboletti, presidente della Sambenedettese di quei gloriosi anni Ottanta, morto, lo scorso 8 luglio, all’età di 88 anni. “Tanta gente che mi incontra mi dice di essere orgogliosa di conoscermi – ha scritto nella sua ultima lettera affidata alla figlia –: ma io faccio solo quello che ho sempre fatto, il mio dovere”. La Samba, come la chiamano i tifosi, è questa passione che non muore mai, questa gratitudine nei confronti di chi, in fondo, ha fatto solo il proprio dovere. “Spesso – racconta ancora Ranieri – mi capita di passeggiare per San Benedetto con mia moglie e vengo fermato da qualcuno che mi saluta e mi ringrazia. Lei allora mi chiede chi era e io, il più delle volte, le rispondo che non lo so, ma di sicuro si trattava di un tifoso. Noi per loro siamo delle icone. E io penso che il nostro compito, oggi, è ridare ai tifosi quello che loro ci hanno dato quando scendevamo in campo”.

 

Il campo, dal 1985, è quello dello stadio Riviera delle Palme. Ad accogliere chi arriva da nord, sul lato esterno della curva, una scritta: “Il tempio del tifo”. Tifare è una parola che, a San Benedetto, ha un valore difficile da spiegare. Daniele De Rossi, in una recente intervista, ha confessato il proprio amore per gli ultras rossoblù perché sono “tifosi che credono in quello che vedono”. Non è solo la passione per i colori rossoblù. È una fede, un legame quasi indissolubile, una forma di simbiosi che, negli anni, si è cementata attorno a imprese sportive e tragedie difficili da dimenticare. La più recente è quella di Massimo Bruni detto “Cioffi” (la Curva Nord porta il suo nome), caduto dagli spalti durante Samb-L’Aquila nel maggio 2003 e morto nel novembre 2004, dopo quasi 600 giorni di agonia. Cioffi era uno dei fondatori dell’Onda d’Urto, il primo e principale gruppo ultras rossoblù, nato nel 1977. In quegli anni la Sambenedettese giocava nello storico stadio dedicato ai fratelli Ballarin, calciatori del Grande Torino morti a Superga il 4 maggio 1949. Ed è lì che la tifoseria locale ha costruito gran parte della propria fama.

 

  

“La chiamavano la Fossa dei leoni – ricorda Ranieri – perché non c’era praticamente spazio tra la linea del fallo laterale e la recinzione delle tribune. I tifosi ci toccavano eravamo un’unica cosa. Sentivano tutto quello che dicevamo e noi sentivamo loro”.
La Fossa dei leoni intimoriva chiunque. Ne sanno qualcosa le più blasonate Inter e Juventus che, nonostante militassero in Serie A, al Ballarin incassarono una sconfitta, la prima, e un pareggio, la seconda, in Coppa Italia. Due imprese che, insieme ai derby con Ascoli e Pescara e alle sfide per la promozione in serie B, sono spesso protagoniste dei racconti sul club.

  

 

Al Ballarin, il 7 giugno del 1981, è stata scritta una delle pagine più dolorose del calcio sambenedettese. In campo Samb-Matera, ultima giornata del campionato di Serie C1, girone B. Un giorno di festa con i rossoblù pronti a festeggiare la promozione. Per l’occasione la Curva Sud ha organizzato una coreografia con 7 quintali di striscioline di carta di giornale che però all’improvviso, forse a causa dei fumogeni o di un mozzicone di sigaretta, prendono fuoco. La Curva si trasforma in una trappola. Le oltre 3.500 persone cercano di fuggire, gli idranti non funzionano, i cancelli che potrebbero permettere il deflusso restano chiusi. Alcuni cadono nelle fiamme, c’è chi cerca di portare in salvo gli altri, soprattutto i bambini, alla fine gli ustionati sono un centinaio e alcuni, ancora oggi, portano i segni di quella giornata. Due ragazze, Maria Teresa Napoleoni di 23 anni e Carla Bisirri di 21, muoiono. Ranieri quel giorno se lo ricorda bene: “C’è una foto della squadra a centrocampo prima dell’inizio della partita. Zenga è l’unico che guarda verso la Sud. Lui capì subito cosa stava succedendo. La partita iniziò con 30 minuti di ritardo ma non sapevano esattamente che tipo di tragedia s’era consumata. Lo capimmo solo dopo quando morirono Maria e Carla e quando, con il resto della squadra, andammo in ospedale a trovare i feriti”.

  

 

Lo scorso anno l’associazione Curva Nord Massimo Cioffi ha prodotto un dvd realizzato da Mauro Piergallini e Mirko Tulli che si intitola appunto “Il Ballarin, La Fossa dei Leoni”. C’è il racconto di come uno stadio di provincia si è trasformato in un luogo quasi mitologico. Della nascita dell’Onda d’Urto e del suo simbolo, il teschio alato, ispirato dalla fibbia di una cintura indossata da Loredana Bertè in una foto di copertina di una rivista patinata. C’è il dolore per quella terribile domenica di giugno del 1981 e per il Ballarin che, dopo il trasferimento al Riviera delle Palme, non è mai stato ristrutturato e oggi è in fase di demolizione. Lo scorso aprile la Curva Nord, in occasione dei 96 anni dalla nascita della Samb, ha presentato un progetto di riqualificazione. La speranza è che possa essere realizzato.

 


 

Illustrazione Amalia Mora 


  

Nel frattempo la Sambenedettese, con l’arrivo di Montero, è tornata sotto i riflettori. Negli ultimi anni la società guidata da Fedeli ha centrato una promozione in Serie C e ha giocato per tre volte i play-off. Il tecnico uruguaiano conosce bene e ama la passione con cui i tifosi sostengono la squadra, ma sa anche che il sogno di tutti, a San Benedetto, è il ritorno in B. Lui, per ora, non fa promesse (“non vendo fumo”) se non quella di costruire “una squadra grintosa con giocatori che si sudano la maglia e che danno il massimo”. Servirà un po’ di fortuna (“bisogna aiutarla, ma esiste”) e la voglia di lottare. Il resto è calcio. Non c’è mistero.

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