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Il Foglio Sportivo

Il disastro dello sport agonistico in Italia e un'idea per ripartire dal sud

Fabio Pagliara

Non basta investire in nuovi impianti che poi vengono abbandonati, bisogna innovare il sistema con piani economici sostenibili. Iniziamo a “sportivizzare” le città

Leggi “RunEconomy” e pensi a bocconiani in scarpe da corsa, keynesiani in braghe corte e canottiera, maratoneti con la barba alla Carlo Marx o mezzofondisti liberal alle prese con le curve di indifferenza. E invece l’economia del running parla il linguaggio popolare di circa sette milioni di atleti “destrutturati”, anarchicamente ondeggianti fra una gara di quartiere e le massacranti ultramaratone: runner che spendono in abbigliamento tecnico, voli aerei, alberghi, attrezzature iper-tecnologiche, integratori, cibo e bevande. Perché una Federazione come quella di Atletica dovrebbe occuparsi di loro, nonostante la maggior parte non difenda il Tricolore in gare ufficiali e non si consideri, almeno formalmente, un agonista? Perché le nuove frontiere dello sport si sono spostate da campi e palazzetti a strade e piazze, complice la necessità, che diventa virtù, di fronteggiare una crisi economica che ha compromesso i circuiti privati di gestione del tempo libero, oltre alla nuova tendenza di associare, finalmente, l'attività fisica al benessere anche psichico. Sulla scia della Runcard, la prima carta servizi per runner “non organizzati”, la Fidal organizzò lo scorso anno un convegno sulla RunEconomy, presentando una serie di buone prassi legate a sport e città; oggi, venerdì 31 maggio, la seconda edizione sarà centrata sulla tecnologia e sulle opportunità che questa offre per costruire e fidelizzare una community di sportivi/runner che diventino “influencer”, facendo da effetto moltiplicatore per la promozione e diffusione di stili di vita sani in un contesto cittadino che si adatti a questi mutamenti antropologici. Dalle App studiate per gli sportivi al gaming, ogni tessera comporrà il puzzle della SportCity prossima ventura. Un panel di prestigio si interrogherà anche sui risultati del sondaggio commissionato a Istituto Piepoli, dal quale emergono alcuni dati sorprendenti: nella città ideale degli italiani lo sport è più importante dell’offerta turistica, l’attenzione per il benessere e lo sport a misura d’uomo surclassa l’esigenza di trasporti efficienti e infrastrutture, le piste ciclabili e i corsi sportivi all’aperto sono ritenuti indispensabili per creare città dello sport. Appuntamento a Roma oggi al Salone d’Onore del Coni: sarà l’occasione per parlare, con modalità e prospettive innovative, di sport, di città e di felicità.

 


 

Lo sport agonistico sta male, quello a sud di Firenze peggio e anche noi non è che ci sentiamo troppo bene. Potremmo riderci su, parafrasando Woody Allen, ma la realtà dello sport agonistico in Italia, come la fotografia impietosa del disastro dell’impiantistica al meridione, meritano forse una seria riflessione, visto che si parla di un fenomeno economicamente rilevante e che coinvolge milioni di cittadini.

 

È stata ribattezzata “questione meridionale” dello sport, ma non serve scomodare Salvemini per accorgersi delle due velocità anche in questo ambito: da una parte impianti curati e “diffusi” sopra la Linea Gotica, strutture di quartiere e centri all’avanguardia utilizzati dalle società sportive e dalle Federazioni come fucine di futuri campioni, dall’altra campi e palazzetti vecchi, inutilizzati, fatiscenti o vere e proprie cattedrali nel deserto, in quel “grande sud” che dalla Capitale si estende fino all’estrema punta della Sicilia.

 

A volte ci sono gli impianti, ma l’incapacità di utilizzare forme di gestione illuminate degli stessi li ha trasformati in un peso per le amministrazioni pubbliche, condannandoli a un lento e inesorabile declino.

 

E come accade in ogni aspetto della storia nazionale, senza un sud capace di viaggiare alla medesima velocità del resto della penisola, a soffrire è l’intero sistema.

 

Per questo ci si interroga sempre più spesso sulle iniziative che potrebbero invertire la tendenza e riequilibrare i rapporti di forza, consentendo, ad esempio, che i tantissimi talenti del sud costretti a emigrare (sic) per immaginare un percorso di eccellenza nelle rispettive discipline, trovino vicino casa spazi e realtà organizzate per allenare le proprie virtù.

 

Sulla scia del “Piano Marshall per lo sport a scuola”, vecchio e giusto pallino del Presidente del Coni, Giovanni Malagò, si è più volte parlato di analoghe iniziative per lo sport al meridione, ma qualsiasi intervento di carattere ausiliario non può prescindere dal rivedere radicalmente metodi e strategie di gestione degli impianti, alleanze virtuose fra pubblico e privato che salvaguardino l’idea dello sport per tutti, senza dimenticare che una impiantistica svincolata dalla sua redditività abbia vita breve e qualità dei servizi costantemente sotto la soglia di tollerabilità.

 

Ben vengano i nuovi impianti, come gli aiuti economici per realizzarli, ma solo se corredati da piani economici sostenibili e percorsi predeterminati di fattibilità e sostenibilità degli stessi: sono finiti i tempi dei grandi eventi che consentivano di far nascere il mega impianto per poi abbandonarlo a manifestazione finita, trasformandolo in riserva di rame per predatori e vandali, come accaduto, per esempio, a Catania, con un palazzetto dello sport enorme inaugurato due volte e adesso distrutto e vandalizzato a più riprese.

 

Oggi i cittadini non tollerano più che si sottraggano risorse ai servizi essenziali per alimentare la megalomania, o a volte anche qualcosa di peggio, di qualche amministratore interessato al consenso momentaneo e al proprio esclusivo tornaconto.

 

Il sud, anche nello sport, deve finalmente uscire dalla logica del piagnisteo e dell’autocommiserazione per riprendere in mano il proprio destino e valorizzare, mettendole a sistema, le risorse naturali a propria disposizione, spesso uniche: un clima invidiabile, scenari naturali di straordinaria bellezza, spazi liberi ancora disponibili nelle città.

 

Eccola, forse, la chiave di volta.

 

“Sportivizzare” le città, trasformarle in impianti sportivi a cielo aperto, ricucire tessuti urbani degradati attraverso lo sport, alimentare le periferie di spazi attrezzati in mezzo al degrado, può rivelarsi una scelta vincente, così come utilizzare spiagge e specchi d’acqua come impianti donati da Madre Natura, fruibili trecentosessanta cinque giorni l’anno.

 

Poca manutenzione, massimo ritorno in termini di qualità della vita, indicatori del turismo sportivo ai massimi livelli, città “felici” e benessere individuale.

 

A costo (quasi) zero.

 

Un meridione trasformato in una gigantesca Wellness Valley non è una utopia irrealizzabile, perché altre realtà del mondo lo hanno fatto, e lo stanno facendo, solo regolando con maggiore attenzione la lente dello sviluppo e della pianificazione urbanistica ed economica nei centri urbani, alla costante ricerca di servizi per migliorare la qualità della vita dei cittadini.

 

E questa impostazione aiuta a liberare risorse anche per lo sport agonistico, per specializzare l’impiantistica esistente verso centri di eccellenza per giovani talenti, oltre a plasmare generazioni che vedano nel movimento fisico e nella pratica sportiva non un processo legato a meccanismi economici di gestione del tempo libero, ma asset culturale del contesto nel quale vivono, studiano, lavorano.

 

Va bene il Piano Marshall per lo sport, ben vengano risorse nuove per rifarsi il look, ma la nostra “questione meridionale” si risolve principalmente rimboccandosi le maniche, “pensandola nuova”.

 

Innovare il sistema è il modo migliore per salvarlo.

 

Fabio Pagliara è segretario generale Fidal

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