Mattia Binotto al muretto della Ferrari durante il Gran Premio di Cina a Shangai (foto LaPresse)

Uno, Binotto e trino

Fabio Tavelli

Perché la Rossa fatica? Qualche domanda (e qualche risposta) sui ruoli del capo della Scuderia Ferrari

Mattia è uno (team principal) ma anche bino (direttore tecnico). E quindi per lui diventa naturale un accrescitivo, ovvero Binotto, giudicato però dalla Treccani “semanticamente ambiguo, nel senso che la modificazione dimensionale che imprime alla base oscilla tra accrescimento e diminuzione”. Giudicheranno come sempre i risultati e se il generalissimo Binotto è in grado di gestire al meglio il doppio prestigioso fardello non lo possiamo certo tranciare come giudizio dopo tre misere gare. Che lui sia diventato uno e bino(tto) pareva andare benissimo dopo la cacciata di Arrivabene, accusato delle peggio cose e ormai pronto per la santificazione postuma se nel perpetuarsi dell’anno del vinceremo il prossimo anche questa volta rideranno gli altri.

 

Non va più bene perché ora si dice che nessuno possa essere il capo di se stesso senza pagarne dazio. Non va più bene perché a Barcellona s’era immaginato un futuro che a Melbourne è diventato un presagio di sventure, in Bahrain un vorrei ma non posso e in Cina un vorrei ma non riesco. Già, ma qual è il capo di imputazione per Mattia Binotto? Andiamo con ordine. La figlia liceale di questo dinoccolato ingegnere, reggiano di estrazione ma svizzero di nascita (Losanna), risponde a chi le chiede cosa faccia il papi per portare a casa la pagnotta che lui “fa il meccanico alla Ferrari”.

 

Profilo normal one per chi invece fa sia il capo di tutti sia il capo dei motoristi. Beh, tre doppiette della Mercedes nella prima terzina sarebbero già tre indizi che fanno una prova e se il datore di lavoro di Bin8 fosse Zamparini invece che la coppia Elkann/Camilleri gli sarebbero valsi il leggendario pedatone che Zio Paperone rifilava al nipote quando non ne sopportava più la presenza nei dintorni del deposito.

 

Invece, copyright LCDM, uno “non ha mai gestito un’azienda in vita sua” e l’altro “è un grande manager ma si deve occupare di finanza e di rinnovare la gamma”. E quindi questa presunta distanza di presidente e ad dalle umanissime cose riguardanti le corse sarebbero la polizza di lunga vita per Binotto. Il tanto vituperato Arrivabene doveva invece fronteggiare il carico psicologico di un boss autentico come Sergio Marchionne, uno capace di far tremare i muri con il solo squillo di uno smartphone. Uno che anche se non c’era in realtà c’era sempre e che dettava ordini e strategie da aerei perennemente in volo senza riceve obiezione alcuna. E’ ampia e non unanime la letteratura in merito al rendimento potenziale del dipendente sotto lo scacco del datore di lavoro. C’è chi moltiplica il proprio talento e lo trasforma in extra rendimento e chi invece si fa borghese piccolo piccolo e ne subisce, oltre che il fascino, anche l’essere despota non sempre illuminato.

 

Mattia, team principal, può invece dire a Binotto, direttore tecnico, che si poteva partire meglio ma che a Baku arriveranno gli aggiornamenti sul posteriore. E che questa condizione, fondamentale per far bene su un circuito dove la Ferrari non ha mai vinto e nel quale Bin8 si gioca parecchia della sua credibilità, servirà certamente a rilanciare la rincorsa verso gli odiati grigi. Molti dimenticano, o considerano di poco conto, che Mattia Binotto è sì al primo anno di responsabilità una e bina ma che pascola nel recinto modenese sin dai tempi dei trionfi firmati dal quadrunvirato LCDM/Todt/Brawn/Schumacher. E che la sua scalata ai vertici è stata battezzata prima da Montezemolo, poi da Marchionne (che lo volle vice di Luca Marmorini prima di promuoverlo direttore del reparto power unit nello sciagurato 2014 e in seguito direttore tecnico al posto di James Allison nel 2016) e infine dalla coppia Elkann/Camilleri. Troppi indizi per non farne una prova del suo valore assoluto.

 

Quindi la questione qual è? Fossimo nel calcio, magari quello inglese, sarebbe perfettamente normale che allenatore e team manager fossero la stessa persona. All’Arsenal il francese Arsène Wenger ha campato qualche lustro, di troppo, sui contratti che si auto-proponeva e auto-firmava. Qui non è questione di contratti ma di gestione, anche, del tempo. Mentre nei top team la tripartizione dei poteri si fonda sui princìpi delineati da Montesquieu nel 1748, in Ferrari Binotto deve diventare “Trinotto” e occuparsi contemporaneamente di riscrittura del Patto della Concordia, di come guadagnare carico aerodinamico mantenendo bassa la resistenza all’avanzamento e magari anche di dire a Leclerc che tutto sommato può anche aspettare qualche altra gara prima di relegare Vettel al ruolo di aiutante. Qualcuno sospetta, nemmeno troppo velatamente, che sia un carico eccessivo. La verità è che se il metro di paragone è sempre il solito, ovvero “quando c’era lui” (Montezemolo), c’era il buono, Schumi, il brutto, Brawn, e il cattivo, Todt, e tutti andavano d’amore e d’accordo e anche Barrichello era felice di fare lo chauffeur, allora non ci saremo mai. Mettersi ora a criticare Binotto può anche essere legittimo ma è quantomeno un po’ affrettato. Certamente le aspettative erano altre ed è giusto che ai grandi onori di essere il supremo comandante in capo corrispondano altrettanti grandi oneri di farsi intero carico delle (eventuali, stiamo parlando di 3 episodi su 21, un settimo) sconfitte. Binotto è tifoso dell’Inter, oltre che della Ferrari. Conosce dunque l’arte della pazienza e non gli deve fare certamente difetto la coltivazione della sopportazione e dell’astinenza. Tutte virtù che gli saranno utilissime se anche a Baku dovesse suonare un inno anglo/tedesco anziché italo/francese/tedesco.

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