L'età della saggezza di Belinelli (che diventerà un grande allenatore)

Record, vittorie e una carriera da superstar senza ovazioni planetarie. Perché il futuro dell’unico italiano ad avere vinto un titolo Nba lo immaginiamo così

Moris Gasparri

C’è una contraddizione profonda fra i binari del tempo su cui viaggia lo sport e quelli su cui scorre l’evoluzione della società. Mentre sul pianeta Terra la vita biologica di sempre più individui si sta prolungando verso durate mai prima conosciute, e la vecchiaia sta diventando l’orizzonte di riferimento centrale per tante nazioni, in modo particolare la nostra, la carriera degli sportivi resta invece sempre troppo breve, come le fioriture care alla cultura giapponese. Lo sport è da sempre sinonimo di vigore giovanile, mal si concilia con l’idea dell’invecchiare, nonostante gli evidenti progressi della scienza medica.

 

Nell’abbreviamento che è la carriera degli atleti professionisti, esiste però un luogo particolare chiamato “età della saggezza”. Diversi i segni per riconoscerlo. È quando il percorso sportivo che si ha alle proprie spalle comincia a essere sì fitto di esperienza, ma senza volgere al ricordo malinconico, lasciando ancora un po’ di spazio per altre conquiste, altre partite, altri momenti esaltanti, altre sconfitte, altri rimpianti. C’è ancora un tempo che resta prima della fine, e spesso molti campioni sanno farne tesoro per produrre emozioni che, proprio perché meno scontate, spesso diventano più degne di memoria.

 

È l’età in cui un equilibrio armonico tra la vita in campo e lo spazio domestico degli affetti regola il proprio tempo quotidiano, e in cui, negli sport di squadra, la propria parola nello spogliatoio conta più di prima, potendo per questo diventare consiglio e ammonimento, guida e ammaestramento per i compagni più giovani. Nel panorama dello sport italiano, Marco Belinelli è al momento una delle incarnazioni più forti di questo idealtipo. Il campione emiliano vi aggiunge anche un segno di riconoscimento esteriore, rappresentato dai fili argentati che da un po’ di tempo spuntano tra la sua capigliatura e la barba con cui da sempre lo conosciamo. Oltre l’età della saggezza c’è poi l’età dei patriarchi, quella dei Nowitzki e dei Ginobili per restare al mondo del basket Nba, dei pochissimi che sembrano prolungare la propria presenza in campo sottraendosi alla legge inesorabile del tempo, spingendo le proprie carriere verso frontiere di longevità ancora poco frequentate.

 


Belinelli in azione contro i New York Knicks lo scorso 16 marzo (foto Reuters)


  

Il raggiungimento dell’età della saggezza consente di tracciare i primi bilanci sul proprio percorso. La carriera di Marco Belinelli non ha conquistato tributi adoranti, venerazioni da superstar, ovazioni planetarie. Il racconto popolare dell’Nba è così schiacciato dal superomismo dei LeBron e dei Curry che spesso non si riesce ad andare oltre, analizzando i percorsi di successo della classe media. Trascorrere dodici stagioni all’interno di una lega in cui il brulicare di nuovi giocatori in ingresso è vorticoso e la lotta per la sopravvivenza per restarvi serratissima non è un risultato scontato, specie per un giocatore europeo sotto i 2 metri di altezza. Per questo motivo, anche se meno appariscente, Marco Belinelli si è guadagnato un trofeo simbolico molto importante: il rispetto unanime di tutte le persone che praticano, seguono, allenano e dirigono il basket a ogni livello. Rispetto per i successi ottenuti, per la dedizione al lavoro che li ha resi possibili, per il suo ruolo di giocatore di sistema capace di svolgere più compiti offensivi con grande intelligenza, per la sua capacità di stare nei tanti team di cui ha fatto parte sempre con misura e spirito positivo. Il rispetto, nella culla del pragmatismo che sono gli States, è fatto anche dai numeri in cui si esprime. Questa stagione sono apparse molte statistiche che finalmente certificano la solidità del suo percorso, soprattutto riferite all’eccellenza del suo tiro da tre. A livello italiano c’è ovviamente anche una motivazione aggiuntiva che accresce il rispetto fino a farlo diventare ammirazione: l’esclusività data dall’aver raggiunto per primo un traguardo alle nostre latitudini ancora “marziano” come l’anello Nba, idem per la vittoria nella gara del tiro da 3 all’All Star Game. Sono conquiste che probabilmente resteranno a lungo ineguagliate, anche se recentemente Davide Moretti, che a Marco Belinelli per molti aspetti assomiglia, nonostante la discendenza paterna lo renda accostabile a Danilo Gallinari, è andato a un pelo dal conquistarsi uno spazio in questo ristrettissimo club.

 

Cosa resta del suo percorso da atleta sono i playoff Nba in corso (i sesti della sua carriera), magari altre stagioni nella squadra più saggia e solida di tutte, i San Antonio Spurs, gli appuntamenti con la Nazionale in cui lasciare un segno un po’ più tangibile delle tante occasioni mancate del recente passato, chissà, una partecipazione ai Giochi Olimpici sin qui mai vissuta e solo sfiorata. L’età dei patriarchi fa invece intravedere una possibile conclusione della sua carriera nella sua Bologna, con quale maglia non si sa, magari con orizzonte Eurolega. Ma probabilmente non è questo l’esercizio di pensiero più interessante per riflettere sul suo destino futuro.

 

Molta parte della cultura novecentesca si è affaccendata a indagare la preminenza del senso del possibile su quello del reale. Il senso del possibile che balena nel futuro di Marco Belinelli è quello di diventare un grande allenatore. È un giudizio che nasce dalla sommatoria di tutti i grandi incontri di cui è costellata la sua carriera sportiva ormai avviata verso il ventennale, contraddistinta nel suo versante americano da un peregrinare continuo. Una lunga teoria di campioni avuti accanto nello spogliatoio e sul parquet da cui imparare costantemente, in quella particolare forma di apprendimento visivo, percettivo ed emulativo costituita dal sapere sportivo. Il magistero di due allenatori-simbolo come Gregg Popovich ed Ettore Messina, con cui da questa stagione si è ricongiunto a San Antonio e che hanno sempre manifestato un sincero affetto per lui, e oltre a loro i tantissimi altri avuti in carriera, dal Boscia Tanjevic degli esordi al Thibodeau di Chicago, solo per citare altri due mostri sacri dell’arte dell’allenare. Senza contare tutti gli assistenti. Un accumulo di sapere cestistico unico, una formazione continua che ha pochi eguali. Tanti segni potenziali di un percorso che per dirsi tale avrà ovviamente bisogno di solide motivazioni interiori, oltre che di una grande dose di imponderabile, e tuttavia l’immaginazione del possibile ci fa già vedere il “Beli” in panca con la calma, bonaria e serena disposizione verso gli uomini e le cose della gente emiliana, quella che Carletto Ancelotti ha reso un idealtipo di successo, oltre che un modello di studio. Se sarà allenatore, Marco Belinelli sarà questo tipo di allenatore.

 

Il giorno successivo alla vittoria in gara 5 delle Finals Nba 2014 con i suoi San Antonio Spurs, uno dei primi complimenti ricevuti pubblicamente fu quello di Daniele De Rossi. Il molto famoso calciatore della Roma e della Nazionale dall’infausto ritiro brasiliano di Mangaratiba spese parole di apprezzamento importanti per l’allora non così famoso cestista, cosa non propriamente banale in Italia dove, a differenza della Spagna o della Francia, non è consuetudine abituale la legittimazione reciproca fra calciatori e atleti di altri sport. Con un Mondiale vinto e un anello Nba, il destino li ha resi (assieme a Chicco Molinari) i due personaggi dello sport italiano probabilmente più rilevanti della generazione nata nella metà degli anni Ottanta. Un gemellaggio anche qui segnato dalla barba. Chissà che il destino, seguendo sempre le strade del possibile, non li unisca nuovamente anche in futuro facendo di entrambi due allenatori di successo.

Di più su questi argomenti: